Serrare i ranghi intorno all’Ucraina nelle ore più drammatiche dei negoziati per la tregua. E insieme tendere una mano all’amministrazione Trump, che minaccia di mollare la presa e abbandonare l’Europa e Kiev al loro destino. È la strettoia di Giorgia Meloni.
La premier si collega alla telefonata con i leader europei a metà pomeriggio. Da Londra sono connessi Volodymyr Zelensky, Keir Starmer, Emmanuel Macron e Friedrich Merz. Hanno appena concluso un vertice ristretto a Downing Street accolto nel gelo a Roma come nelle altre cancellerie rimaste in disparte, con i leader collegati al telefono in un secondo momento: fra loro il finlandese Stubb, il polacco Tusk, la danese Frederiksen.
IL SEGNALE ITALIANO
Pessimo tempismo per rompere le righe in Europa. La premier schiva le polemiche e va al punto. Spiega agli alleati che Trump e gli americani sono essenziali in questa fase: una frattura con Washington farebbe solo il gioco del governo russo. Di qui «l’importanza dell’unità di vedute tra partner europei e Stati Uniti per il raggiungimento di una pace giusta e duratura in Ucraina», come farà mettere a verbale in una nota di Palazzo Chigi in serata. Insieme i leader europei ascoltano Zelensky. Il presidente ucraino è visibilmente preoccupato dalla piega che hanno preso i negoziati.
Le distanze con gli americani — lo ha aggiornato ieri il suo consigliere Umerov, che ha partecipato ai colloqui negli Usa — sono ancora chilometriche. Specie sulla questione delle cessioni territoriali che è il vero elefante nella stanza: Trump, proprio come Putin, vorrebbe farla finita e chiede agli ucraini di cedere tutto il Donbass. Richiesta indigeribile senza qualche seria compensazione. Su questo la macchina della diplomazia europea è tornata a mettersi in moto. Nelle prossime ore da Bruxelles sarà inoltrata alla Casa Bianca una nuova versione del piano di pace preparato da Trump, emendata. Iniziativa finita ieri al centro della call pomeridiana. Meloni insiste su un punto. Ovvero la necessità di fare fronte comune su poche ma sostanziali modifiche. Quanto basta per salvare il negoziato senza strappare con gli americani. È il caso di «solide garanzie di sicurezza» e dell’«individuazione di misure condivise a sostegno dell’Ucraina e della sua ricostruzione». Da un lato lo “scudo” che servirà a scoraggiare nuove aggressioni russe. Un pacchetto di misure che dovrà fare sintesi fra diverse proposte sul tavolo: una garanzia modellata sull’articolo 5 della Nato per la difesa collettiva, come chiesto dagli italiani, ma anche la presenza di truppe europee di pace a presidio della tregua in Ucraina, come propongono da tempo Macron, Starmer e i “Volenterosi”.
Dall’altro il sostegno alla popolazione civile che nel caso italiano si traduce nell’invio di una nuova partita di generatori elettrici esplicitamente chiesta dal governo ucraino per superare la morsa dell’inverno. Entrambi i dossier saranno squadernati oggi pomeriggio nel bilaterale a Palazzo Chigi fra Meloni e Zelensky. Un’occasione per la premier italiana di confermare il sostegno alla causa ucraina e offrire una sponda politica con Trump, a cui Zelensky potrebbe far visita già nel week end. Certo le incognite non mancano. A Roma, i malumori nel centrodestra con la Lega che minaccia di impuntarsi sul decreto “cornice”, cioè il provvedimento in arrivo in Cdm prima di Natale con cui il nostro Paese rinnoverà per il 2026 la possibilità di inviare aiuti militari a Kiev. A Bruxelles invece entra nel vivo un’altra partita politica che vede l’Italia in una posizione attendista, per non dire di netto scetticismo. All’ordine del giorno del prossimo Consiglio europeo ci sarà il prestito all’Ucraina e l’utilizzo degli asset congelati russi. Ieri intervenendo alla call dei leader la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha insistito sul punto: «La nostra proposta di prestito per le riparazioni è complessa, ma in sostanza aumenta il costo della guerra per la Russia».Su questo fronte però manca un consenso europeo e l’Italia è tra i Paesi che più frenano, nella convinzione che il “sequestro” degli asset di Mosca in Europa possa rivelarsi un passo più lungo della gamba. Si vedrà.
L’INCONTRO A ROMA
Intanto Meloni si concentra sul piano di pace e riapre per la terza volta in un anno le porte di Palazzo Chigi a Zelensky. Ai piani alti del governo sono convinti che la guerra sia entrata in un tornante decisivo. Temono per le sorti del presidente ucraino e della sua amministrazione. In un dispaccio diplomatico riservato quei timori sono esplicitati. Il combinato disposto dei diktat russi, delle richieste americane per lo sfruttamento delle risorse minerarie ucraine e delle elezioni che Zelensky sarebbe costretto a indire entro cento giorni dalla tregua creano una tenaglia «potenzialmente esplosiva per la tenuta della dirigenza e dello stesso Paese».
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