A volte ritornano. Mario Draghi si trattiene un’ora e un quarto con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Sale gli scaloni rossi dal cortile, rivede la premier conservatrice che emozionata, due anni fa, aveva ricevuto da lui la campanella in quelle stanze. Hanno sempre tenuto un canale aperto. Promettono di «tenersi in contatto» nei prossimi mesi di montagne russe tra Roma e Bruxelles: il battesimo della nuova Commissione Ue, il Patto di Stabilità 2.0 che entra in vigore, la scommessa del governo italiano che ha ritagliato un posto al conservatore Raffaele Fitto nella cabina di regia europea.
IL VIS A VIS
Saltano i convenevoli. Tranne uno: Draghi ha apprezzato il restyling dell’ufficio del presidente del Consiglio, angolo via del Corso, che Meloni ha ordinato a pochi giorni dal giuramento. Addio tende damascate e pareti dorate e via a pennellate di bianco con boiserie in grigio e faretti incastonati.
Ma è una chiacchierata densissima quella andata in scena tra l’ex e la nuova inquilina di Palazzo Chigi. Parlano di Europa e si intendono su tanti dei fondamentali contenuti nel rapporto Draghi consegnato dieci giorni fa nelle mani di Ursula von der Leyen. In fondo entrambi vogliono cambiarla, l’Europa com’è. Le ricette collimano, anche se solo in parte. Meloni ha letto con attenzione lo studio dell’ex governatore della Banca centrale europea. Non condivide l’idea di un’Europa federale — lontana dalla sua storia e il suo credo politico — tantomeno la battaglia per una riforma della governance che abolisca il voto di unanimità nel Consiglio europeo. Cancellare il diritto di veto, ne è convinta lei e lo ha fatto presente al suo ospite, significherebbe consegnare di fatto un veto uguale e contrario ai soliti noti. E cioè all’asse Parigi-Berlino che per anni ha dettato legge in Europa e da quando c’è lei a Palazzo Chigi, così la pensa chi governa a Roma, lo fa molto meno. Ma c’è anche unità di intenti. Meloni ha trovato «coraggiose» alcune riforme proposte da Draghi che invece hanno fatto infuriare il fronte dei Paesi frugali del Nord e la Germania di Scholz. Il debito comune per le grandi sfide — tradotto: Eurobond — e di un mercato unico dei capitali. La transizione ecologica che non può non andare di pari passo con una strategia industriale, altrimenti vincoli e scadenze sulle emissioni, auto elettriche, economia circolare «resteranno lettera morta». Complici gli «errori della globalizzazione» che Meloni e Draghi individuano, ad esempio, nella fragilità delle supply chain globali e la dipendenza europea dalle materie prime cinesi. È un chiodo fisso della premier che alle riunioni dedicate a Chigi si presenta con uno schemino a portata di mano con il tasso di dipendenza dell’Ue nei “metalli rari” su cui poggia l’innovazione: litio, cobalto, magnesio. E ancora è impensabile — riflette con i suoi consiglieri la premier — auspicare finalmente la nascita di un’industria europea della Difesa senza sposare la battaglia italiana per scorporare gli investimenti di settore dal deficit.
Esiste insomma tra le righe un’agenda Draghi-Meloni per l’Europa che sarà. Al primo posto c’è la natalità. Senza una cura-shock della crisi demografica europea non c’è welfare che tenga. Meloni non fa che ricordarlo nelle continue riunioni sulla manovra. Poche risorse, sobrietà obbligata. Ma se potesse intestarsi politicamente una sola misura nella finanziaria, sarebbero proprio le agevolazioni fiscali per le famiglie con figli e l’assegno unico 2.0.
IL CLIMA
È un colloquio schietto. Qui e lì c’è spazio per parlare del governo e del centrodestra, i successi e le difficoltà di due anni di navigazione, la nomina di Fitto in Ue che gonfia il petto alla premier. Una nota a fine sera da Palazzo Chigi riassume che unisce i due leader, a partire dall’auspicio «che l’Europa preveda strumenti adatti a realizzare le sue ambiziose strategie».
Sembrano alle spalle le voci di sospetti e tensioni circolate dopo la visita rivelata a sorpresa, mercoledì scorso a Milano, tra Draghi e Marina Berlusconi. Forse non è un caso se Meloni cita ed elogia alcuni passaggi del rapporto del suo predecessore parlando alla platea di Confindustria dove era attesa in origine la “Cavaliera”. Draghi vedrà Macron, continuerà il tour per il suo report. Esce alle sei del pomeriggio con due auto blu. Lascia alle spalle il palazzo che per diciotto mesi è stato il suo ottovolante quotidiano. Chissà se ne ha nostalgia.
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