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Ue, Meloni mediatrice tra i 27. Il pressing di Rutte (Nato): aumentare le spese militari


Indovina chi (non) viene a cena. Nulla di fatto, alla fine, per il ventilato video-collegamento tra Budapest e il buen ritiro trumpiano di Mar-A-Lago. Ma anche se la call vagheggiata da Viktor Orban per portare la voce del presidente eletto al suo summit dei Ventisette non compare in agenda, tra i leader europei che a sera si attovagliano sotto gli arazzi le volte gotiche del sontuoso parlamento ungherese affacciato sul Danubio l’argomento è – quasi esclusivamente – lui: il tycoon. E la scossa che servirà all’Europa per reagire.

A cominciare da quell’aumento delle spese per la Difesa che da anni viene rimandato dalla gran parte dei Paesi membri coperti dall’ombrello della Nato. Gli obblighi dell’Alleanza, sottoscritti dieci anni fa anche dall’Italia, imporrebbero di destinare agli armamenti difensivi il 2% del Pil. Percentuale da cui però Roma – che su questo è in buona compagnia – è ancora ben lontana. Ma che per il segretario generale Mark Rutte neanche basterebbe, a dirla tutta, tanto più ora che gli Usa promettono disimpegno. È «assolutamente chiaro», avverte Rutte, che i Paesi membri della Nato dovranno spendere «molto più del 2% del Pil» nella difesa (obiettivo che nel frattempo il ministro dell’Economia Giorgetti definisce «molto ambizioso» e «non del tutto compatibile» con le finanze pubbliche).

SMOTTAMENTI
Il bisogno di provvedere da soli alla propria difesa è però solo il primo degli scossoni in arrivo, a fiutare l’aria del vertice di Budapest. Qualche smottamento per la verità era già cominciato prima. Almeno negli equilibri del Vecchio Continente. Dove in fin dei conti gli amici di Trump, quelli che in fondo condividono la linea di disimpegno di The Donald, non sono pochi. Lo ripete Viktor Orban, che tra i leader della Comunità politica europea fa gli onori di casa e si gode il vento del sovranismo che spira da Oltreoceano. Il premier magiaro sarà pure la «pecora nera dell’Europa», come sorridendo lo apostrofa Edi Rama. Ma è pur vero che tutti gli altri hanno dovuto radunarsi «nel suo ovile», anziché – prosegue ancora l’albanese – ascoltare soltanto «sua maestà» Macron. Al di là delle battute, l’impressione è che il paragone rifletta una tendenza reale, in Europa. Sempre meno anti-trumpiani, o perché a fine corsa (come lo stesso Macron) oppure perché in crisi di consenso (come Olaf Scholz). O più semplicemente perché convertiti al realismo di chi sa che con il nuovo inquilino della Casa Bianca bisognerà comunque fare i conti, piaccia o no. Mentre le “pecore nere”, come Orban, se la ridono. Non è l’unico, l’ungherese, a gioire per il successo di The Donald. Il cancelliere austriaco Karl Nehammer sull’immigrazione sposa una linea non così diversa. Un altro supporter è il sovranista Geert Wilders, azionista di maggioranza del governo olandese. In Slovacchia Trump può contare sull’amicizia di Robert Fico, alle prese con uno scontro quotidiano con Bruxelles come Orban (che come lui non nasconde le simpatie filorusse). Un club al quale l’anno prossimo potrebbe aggiungersi Andrej Babis, dato come vincitore in Repubblica ceca. E un domani, chissà, Marine Le Pen in Francia.

Un contesto nel quale Giorgia Meloni ha già scelto che parte impersonare. Quella della “cerniera” tra Europa e Usa, possibile interlocutrice privilegiata con la Casa Bianca in nome e per conto (anche) del Vecchio continente. Un po’ per le sue posizioni conservatrici non così lontane da quelle del mondo Repubblicano, un po’ per l’amicizia con Elon Musk, che nella prossima amministrazione si prepara a ricoprire un incarico di spicco. Di Trump «non bisogna avere paura», ha ricordato ieri sera Meloni ai colleghi, invitati piuttosto a costruire «relazioni funzionali» con il prossimo governo a stelle e strisce. Ma il ruolo da mediatrice che la premier sta provando a ritagliarsi, scommettono nell’esecutivo, potrebbe tornare utile anche all’Ue, nel momento in cui ci fosse da convincere The Donald a non mollare l’Ucraina al suo destino (punto sul quale Meloni non ha mai fatto mancare il suo sostegno a Zelensky).

Un cambio di scenario che in ogni caso pare anticipare un minor coinvolgimento delle istituzioni europee a favore di un ritorno all’antico splendore delle relazioni bilaterali tra Paesi, nel prossimo futuro. E non è un caso se Gérard Araud, ex ambasciatore francese negli Usa, ha lanciato su X la sua previsione: «Aspettatevi che gli europei si riversino a Mar-A-Lago in massa per chiedere un trattamento preferenziale rispetto ai loro vicini». Chissà che la premier italiana non possa metterci una buona parola.

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