Da un lato Volodymyr Zelensky, il presidente in mimetica. Dall’altro la sagoma longilinea di Friedrich Merz. Alla tavola apparecchiata nella Sala dei banchetti al primo piano della Cancelleria Giorgia Meloni siede al centro dei due uomini chiave del summit di Berlino. E sarà forse un caso se la disposizione rispecchia in pieno la posizione politica “mediana” difesa dalla premier italiana durante la riunione fiume dei “Volenterosi” nella capitale tedesca, sfociata in una dichiarazione congiunta dei leader europei che apre uno spiraglio per la guerra in Ucraina.
Arriva nel tardo pomeriggio la presidente italiana, si concede ad abbracci e baci con i leader europei in un blazer pied-de-poule ghiaccio, smorza la tensione con Ursula von der Leyen, «bei capelli!». Poi si immerge in un vertice denso di aspettative. Perché al conclave con gli europei, oltre a Zelensky, Macron, Starmer e l’italiana, questa volta prendono parte anche Jared Kushner (con cui la premier ha un fitto colloquio) e Steve Witkoff, il genero e l’inviato speciale di Trump che guidano i negoziati per la Casa Bianca. Ma soprattutto si collega in videocall Donald Trump che al termine dispensa ottimismo: «Ho avuto un ottimo colloquio con gli europei, le cose stanno andando molto bene».
La dichiarazione congiunta dei leader in serata è in questo senso un passo in avanti significativo nel tortuoso percorso imboccato dalle diplomazie occidentali per arrivare a una tregua. Ci sono le garanzie di sicurezza per Kiev, l’impegno a mantenere intatto l’esercito ucraino, la volontà di mantenere alta la pressione contro la Russia di Vladimir Putin.
Ma dietro i propositi di ferro si cela anche uno straordinario esercizio di equilibrismo. Meloni in serata traccia con i suoi collaboratori un bilancio di chiari e scuri. Dal vertice berlinese incassa quella che considera una vittoria politica. Per la prima volta gli europei abbozzano per iscritto le garanzie di sicurezza che dovranno scongiurare una nuova invasione russa, una volta siglata la tregua. Dovranno essere «giuridicamente vincolanti» e richiederanno un impegno concreto degli Stati Ue e Nato: dall’uso della «forza armata» fino a misure più blande come «azioni economiche e diplomatiche». Di fatto uno scudo legale per l’Ucraina disegnato sulla falsa riga dell’articolo 5 della Nato, che garantisce la difesa collettiva dell’Alleanza atlantica. Sarà soggetto «alle procedure nazionali» mettono a verbale i big d’Europa ovvero, nel caso italiano, a un voto del Parlamento.
È una proposta di cui Meloni per prima ha rivendicato il copyright. E se ora inizia a farsi strada è anche grazie al passo indietro di Zelensky che proprio da Berlino, domenica sera, ha annunciato l’intenzione dell’Ucraina di rinunciare all’adesione Nato, sbloccando un importante impasse delle trattative. La delegazione italiana — nel team c’è il consigliere diplomatico Fabrizio Saggio che da giorni prepara il terreno nella capitale tedesca insieme agli altri sherpa — rilegge in filigrana la dichiarazione congiunta. Tra i passaggi del patto di Berlino su cui Meloni va all’incasso, oltre alle garanzie Nato, rientra l’impegno solenne a mantenere intatte le forze armate ucraine: 800mila militari anche «in tempo di pace». Ora i passaggi “scuri”. Ovvero i dubbi che a Roma resistono nonostante la serrata di ranghi europea. Il più ingombrante riguarda l’invio di soldati italiani in Ucraina all’interno della «forza multinazionale» annunciata ieri dai Volenterosi. Meloni è contraria. Non intende spedire militari italiani boots on the ground. Altro conto è continuare ad addestrare le forze militari ucraine in Italia. Non è un caso se sul punto la dichiarazione si fa assai ambigua: alla forza militare parteciperanno solo gli Stati che si renderanno «disponibili». Sullo sfondo del conclave berlinese si torna ad affrontare poi un altro nodo intricato: l’uso degli asset russi congelati in Europa per finanziare la ricostruzione e le riparazioni di guerra ucraine.
IL FRENO SUGLI ASSET
Da settimane a Roma tirano il freno e Meloni è pronta a ribadire i suoi dubbi granitici al Consiglio europeo al via giovedì, che avrà gli asset al centro del menù. La premier cammina sul filo, come dimostra la risoluzione di maggioranza al voto domani in aula che risente delle pressioni leghiste contro il sostegno a oltranza per Kiev. Anche sulle finanze sequestrate di Mosca a Berlino vincono gli equilibrismi. I leader prendono atto che sono state «congelate». Ma non spiegano né come né quando Putin sarà chiamato a pagare il conto. Ora palla a Bruxelles.
Francesco Bechis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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