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Tesoretto” per i parlamentari, torna il mini-fondo di 120 milioni per i ritocchi: come funzionerà il salvadanaio


Pareva destinato a soccombere, sacrificato sull’altare della linea zero sprechi imposta da via XX settembre. Invece, nelle pieghe della Manovra atterrata ieri a Montecitorio, ecco che rispunta un grande classico delle leggi di Bilancio: il “salvadanaio” destinato alle modifiche parlamentari.

Nulla di troppo oneroso, anzi: il “tesoretto” a disposizione di onorevoli e senatori, si legge all’articolo 121, ammonterà a 120 milioni per il 2025 e 200 per il 2026. Spiccioli, se confrontati coi trenta miliardi di interventi contenuti nei 144 articoli della Manovra. Di certo nulla che possa bastare ad accontentare le richieste più dispendiose dei due junior partner del governo, Lega e Forza Italia. La prima desiderosa di portare a casa un’estensione della flat tax per gli autonomi fino a 100mila euro (e a sbianchettare o almeno ridurre l’aumento della tassazione sulle plusvalenze dei bitcoin). La seconda che per ora incassa l’esclusione della Pa dal nuovo tetto agli stipendi dei manager. Ma che punta a irrobustire l’aumento delle pensioni minime così come il taglio dell’Irpef per i ceti medi. Interventi a cui «per ora bisognerà rinunciare», alzano le spalle da Fratelli d’Italia. Dove si moltiplicano gli appelli alla «responsabilità» indirizzati agli alleati. Come a dire: i cordoni della borsa sono stretti, i margini di manovra pure. Per non dire inesistenti. «Chiederemo alla maggioranza di limitare gli emendamenti: ci si può concentrare sulle cose più importanti e urgenti», è l’appello arrivato ieri dal titolare dei Rapporti col Parlamento, Luca Ciriani.

Ed è in quest’ottica che è rientrato dalla finestra il borsellino per i fondi degli emendamenti d’Aula. Se non si potranno rivendicare tutte le misure bandiera promesse in campagna elettorale, è il senso della mossa, si potrà almeno elargire qualche “contentino” agli eletti di maggioranza (e pure, come prassi ultradecennale vuole, a quelli di opposizione). Sovvenzioni a fondazioni o enti culturali sul territorio (meglio se sul proprio collegio elettorale), piccoli bonus, mini sgravi a questa o quella categoria (anche) per ottenerne un ritorno elettorale.

L’anno scorso il Mef aveva accantonato a questo proposito 400 milioni, ma spalmati su quattro anni, poi ridotti a circa 200. Le opposizioni, destinatarie di una quarantina di milioni, scelsero di destinarli tutti a un fondo contro la violenza sulle donne in memoria di Giulia Cecchettin. Quest’anno le risorse sembravano destinate ad azzerarsi. Invece, rieccole. Ma con annesso un implicito gentlemen’s agreement: assicurare un percorso al testo attraverso i marosi delle aule parlamentari che sia il più liscio possibile.

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TEMPI STRETTI

Perché i tempi – mai come quest’anno – si annunciano contingentati. Oltre alla Manovra, infatti, entro il 31 dicembre vanno convertiti sette decreti legge. E in più c’è il ddl Concorrenza da approvare. L’obiettivo – o meglio la speranza – è varare la legge di Bilancio in entrambi i rami entro Natale. Se così non sarà, però, è già pronto il piano B: far tornare tutti in Aula il 27 e 28 dicembre e, se servirà, anche oltre. E pazienza per le vacanze a singhiozzo e per l’eventuale cotechino che, in caso di intoppi, potrebbe essere consumato alla buvette. Parlamentari avvisati, dunque: meglio sbrigarsi. Sempre che le opposizioni non si mettano di traverso. Elly Schlein già annuncia battaglia: «Meloni ha deciso di dare un altro colpo al servizio sanitario nazionale», tuona la leader del Pd. Duro pure Giuseppe Conte. Che sulle pensioni minime incalza l’esecutivo: «Fa l’elemosina senza pudore».

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