Un accordo di massima, striminzito, appena una paginetta e mezzo per contenere la bozza di una possibile intesa. È la controproposta Usa, «di principio», planata sul tavolo di Ursula von der Leyen mercoledì sera, a Consiglio europeo in corso, un piccolo passo in avanti in una trattativa che a lungo è apparsa impaludata, con la deadline del 9 luglio che incombe. E che potrebbe essere spostata qualche settimana più avanti per consentire alle parti in causa di trovare un punto di caduta onorevole. Perché di questo si tratta. «Consentire a Donald Trump di cantare vittoria scudando il mercato europeo il più possibile», spiegano fonti diplomatiche di stanza a Bruxelles. Obiettivo dell’Ue è limitare i danni. Mentre il 10% sembra confermarsi il numero X, accompagnato da un “buy American” in grado di convincere il tycoon.
All’indomani di un Consiglio europeo che ha registrato distanze e divisioni è ancora l’affaire dazi a tenere banco e a farla da padrona. Ed è una partita a poker fatta di carte coperte, bluff e assi nella manica da calare al momento opportuno. A mezzogiorno salta il consueto punto stampa a Palazzo Barlaymont, sede della Commissione europea. Un bug significativo perché del tutto irrituale, giustificato dagli addetti ai lavori con il fatto che von der Leyen aveva parlato ai cronisti solo qualche ora prima, all’1 di notte e summit finito. Ma a Bruxelles è prassi il punto con i giornalisti all’indomani del vertice, e c’è chi dietro il mancato appuntamento legge la volontà di non scoprirsi troppo, avvantaggiando o indispettendo — con The Donald e un attimo — l’altra sponda dell’oceano.
Mercoledì prossimo la controproposta americana dovrebbe essere condivisa con gli ambasciatori dei 27, i rappresentanti permanenti a Bruxelles. Allora mancherà appena una manciata di giorni al 9 luglio e la speranza è di chiudere prima, senza allungare i tempi e dover attendere settembre per la stretta di mano. Qualche segnale di disgelo c’è sulla strada che porta a Washington. «Continuiamo a lavorare intensamente per raggiungere una soluzione negoziata. Apprezziamo il confronto costruttivo di oggi» con la controparte americana, scrive sui social il commissario europeo al Commercio, Maros Sefcovic, dopo aver sentito il rappresentante al Commercio USA Jamieson Greer. Mentre il segretario statunitense Howard Lutnick si dichiara ottimista su un accordo a stretto giro con il Vecchio Continente. Von der leyen, mercoledì sera, non ha condiviso con i leader i contenuti della proposta a stelle e strisce. Ma ormai è sentire comune «che sotto il 10 Trump non sia disposto a scendere: non uscirà mai a mani vuote», anche perché già al G7 in Canada il presidente Usa aveva storto il naso davanti all’ipotesi del “ten”. Il problema è come arrivare a quel 10 senza ledere troppo l’Europa, con un danno di immagine oltre che di cassa. Che passa anche dal fatto che il tycoon esige più acquisti di prodotti “Made in Usa”, a partire dal gas Gnl e dagli armamenti. Nonché un rinvio o un un ridimensionamento del Digital Markets Act a tutela delle Big Tech. La trattativa, viene spiegato da fonti interessata al dossier, non sarebbe ancora arrivata sul tavolo dello Studio Ovale, condotta per ora a livello di sherpa. «L’Europa ha diritto di tutelare i propri interessi» è il mantra che rimbalza da settimane a Bruxelles, dove si spera di strappare parità di trattamento — con il numero 10 che torna ancora una volta — sui settori più falcidiati dai dazi voluti dal tycoon: automotive e componentistica per auto (ora al 25%), acciaio e alluminio (50%).
LE LETTERE DI TRUMP
«Abbiamo fatto un accordo con la Cina, con il Regno Unito e altri quattro o cinque. Penso che avremo un accordo con l’India. Abbiamo 200 paesi» con cui fare accordi e «non possiamo farli con tutti. Nella prossima settimana e mezzo, mi piacerebbe mandare lettere a tutti dicendo: “congratulazioni, pagate il 25%”. Alcuni paesi saranno delusi perché dovranno pagare i dazi», torna ad alzare la voce il presidente statunitense. «Trump ha il suo modo di trattare — spiega un ministro italiano di peso — spara a pallettoni per ottenere il meglio. Dopodiché, si tratta degli States: se chiedono qualcosa, qualcosa gli va dato». Il punto è cosa, fino a che punto si debba arrivare, con il rischio sotteso che l’Europa si spacchi sull’altare del rincaro dei balzelli alle dogane. Le distanze sono già evidenti, con Macron che rifiuta l’idea di un accordo asimmetrico, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e la premier Giorgia Meloni che spingono sull’acceleratore per arrivare a un’intesa, lasciandosi alle spalle l’incertezza che da mesi scuote i mercati. Da un lato la tentazione di una reazione muscolare, dall’altra la volontà di trattare evitando strappi. Nel mezzo von der Leyen, che gioca una partita decisiva in un momento delicatissimo della sua presidenza. «Con Trump che l’attende al varco, non un gioco da ragazzi. Diciamocelo chiaramente: nessuno vorrebbe essere nei panni di Ursula», la battuta che rimbalza nei conciliaboli di Palazzo Berlaymont.
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