Meglio partire dai numeri: per abrogare la legge sull’Autonomia differenziata serve portare alle urne circa 25 milioni di elettori, più del doppio delle 12 milioni di preferenze incamerate dall’intero fronte dell’opposizione alle ultime elezioni Europee.
LA MOBILITAZIONE
Per stoppare il decreto legge Calderoli appena varato a Montecitorio servirebbe cioè una mobilitazione monstre che con gli attuali trend d’affluenza è però sostanzialmente quasi impossibile. E infatti, proprio a via del Nazareno, c’è chi comincia a pensare che la segretaria Elly Schlein stia commettendo un errore a schierarsi e a usare toni perentori come «la elimineremo». Farebbe cioè meglio ad abbassare il tiro, sfilandosi dalla partita in cui è scesa in campo accanto a Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli, Carlo Calenda e Matteo Renzi, per combattere — semmai a colpi di ricorsi — assieme ai suoi presidenti delle Regioni (intanto con le dimissione dell’emiliano Stefano Bonaccini presto sarà impossibile raggiungere il quorum dei consigli regionali ed aggirare la raccolta delle 500mila firme). «Così incasserà una sconfitta sicura» spiega uno degli eletti dem che compongono la segreteria di Schlein, «bisogna farglielo capire».
Per di più, con i ritmi attuali di raccolta delle firme, il referendum abrogativo anti-autonomia andrebbe a sovrapporsi a quello contro il Jobs act lanciato dalla Cgil. Altra consultazione dove, a fronte di una dimostrazione di forza del sindacato già sostenuto da quello che è il campo largo, le opposizioni arriverebbero per di più divise. Né Azione né Italia viva sono infatti intenzionate a sostenerlo.
Con il risultato che bisognerà spiegare agli elettori non solo i relativi distinguo o l’importanza di andare alle urne, ma pure di farlo a ridosso della bella stagione. I referendum abrogativi infatti hanno date certe. Tutti quelli per cui vengono raccolte le firme necessarie entro il 30 settembre infatti — Corte Costituzionale permettendo — devono finire in calendario tra il 15 aprile e il 15 giugno. Difficile immaginare un risultato diverso dalla sconfitta. Certo Schlein e Conte potrebbero appuntarsi sul petto un’eventuale grande partecipazione del Paese come risultato politico (specie ovviamente al Sud, dove il Partito democratico è risultato il primo partito già alle Europee di inizio mese), quello referendario però sarebbe opposto.
Ed è per tutti questi motivi che tra gli esponenti dem, soprattutto all’interno dell’ala riformista del partito, c’è chi guarda con preoccupazione al fatto che al Nazareno ci si lasci influenzare da quei sondaggi che vorrebbero il premierato più popolare rispetto all’autonomia, indicando quindi il dl Calderoli come terreno di scontro preferibile per polarizzare gli elettori. Per alcuni sarebbe cioè un errore strategico, col rischio di «regalare a Giorgia Meloni» un vantaggio competitivo rispetto agli altri due referendum che potrebbero finire in agenda. Quello sull’elezione diretta del premier appunto, e quello sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri voluto da Forza Italia.
Questi, costituzionali, non richiedono infatti il raggiungimento di un quorum e sarebbero più facilmente contendibili per l’opposizione. A patto che si riesca a sollecitare una mobilitazione uguale e opposta rispetto a quella che il centrodestra spera di schierare. Un obiettivo stavolta alla portata, che però potrebbe essere complicato da un’eventuale tornata referendaria precedente in cui le energie profuse non hanno ottenuto il risultato sperato. Questione di strategie e prospettive insomma, con il bipolarismo alla finestra.
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