Massimiliano Valerii, direttore del Censis, che cos’è oggi il ceto medio?
«È il contrario del gruppo sociale che nel secolo scorso ha costruito questo Paese. Allora c’erano dei potenti meccanismi ascensoriali di mobilità sociale, che permettevano uno scatto in avanti come l’idea che — studiando — i figli dei contadini e quelli degli operai si sarebbero trovati a guidare l’Italia con i figli della borghesia. E non è stata soltanto una leva di crescita economica, ma di inclusione, di riconoscimento sociale e di allargamento dei diritti».
E adesso?
«Oggi, senza più alcun riconoscimento a questo status, nel ceto medio aleggia lo spettro, il rischio di declassamento: non si sale più nella scala sociale, ma si teme di scendere di qualche gradino. E non a caso — e non soltanto in Italia — si parla di populismo e di sovranismo, cioè di misure di protezione. Donald Trump, per esempio, ha scelto come suo slogan “Make America Great Again”, dando per scontato che gli elettori non considerino più gli Usa un grande Paese».
Chi fa parte del ceto medio?
«A livello numerico il 60,5 per cento degli italiani si sente ancora ceto medio. E oltre al nucleo naturale di dipendenti pubblici e privati, ci rientrano anche l’artigiano, il piccolo imprenditore, il commerciante. Anzi, tutto il lavoro autonomo. Cioè quelli che, a differenza del passato, non riescono a fare quel passo verso l’alto. La differenza rispetto al passato è che manca la forza propulsiva che ha fatto crescere il Paese».
A che cosa è dovuta la crisi?
«Sono andati in frantumi i due motori di questa rivoluzione. Intanto la formazione, la promessa che studiare, prendersi un titolo di studio equivaleva a un biglietto d’ingresso sull’ascensore sociale. Era un investimento per una vita migliore».
L’altro motore?
«Gli stipendi, non più remunerativi come in passato: negli ultimi trent’anni sono cresciuti soltanto del 3 per cento, contro il 30 di Francia e Germania e il 40 della Gran Bretagna. Non sorprende che adesso il 30 per cento dei laureati sia sottoimpiegato, faccia un lavoro con minori responsabilità rispetto alla sua preparazione. E stipendi bassi si traducono in debole domanda interna, che vale i due terzi del Pil e che a sua volta spiega la nostra crescita di pochi decimali. Il tutto in un Paese dalla fortissima denatalità».
Che c’entra la crisi demografica?
«È lo specchio di questo momento di impasse. Se non avanza il ceto medio, è anche perché non nascono bambini. E non soltanto in ottica numerica. La nostra società si fonda su un proposito teleologico: perpetuarsi aumentando le libertà, accrescendo il benessere e allargando i diritti sociali anche in prospettiva delle prossime generazioni. E senza figli viene a mancare un ancoraggio, una proiezione verso il futuro. Lo ripeto, la forza del ceto medio non era accedere tout court alla ricchezza, ma migliorare le proprie condizioni di vita».
Lei ha citato l’ascensore sociale, che però era mosso dal merito.
«Dovrebbe essere un cardine della modernità, perché garantisce pari opportunità di crescita a tutti a differenza delle rendite di posizione. Invece nel nostro Paese, e negli ultimi anni, si è ribaltato il concetto: il merito è diventato un meccanismo di esclusione, con il risultato che se qualcuno non ce la fa, la colpa è di quelli più bravi… Una polemica assurda, rilanciata tra l’altro da una certa sinistra, che invece dovrebbe attribuire al merito il valore sociale che ha».
La politica, più in generale, fa fatica ad affrontare i problemi del ceto medio. Che, dal canto, sembra intensificare sempre di più le file dell’astensione.
«Perché il voto è un investimento che si fa sul futuro. E oggi si disertano le urne perché nel Paese si è metabolizzata l’idea che i partiti non sappiano dare risposte a queste problematiche. La politica, invece, da un lato sa mettere in campo solo istanze protezionistiche, perché dopo trent’anni di globalizzazione è forte la richiesta di strumenti difensivi; dall’altro, siccome va alla ricerca spiccia del consenso, alla fine si accontenta soltanto di qualche decimale in più per dire che ha vinto».
Che bisognerebbe fare?
«Il ceto medio oggi fa fatica a salvaguardare i propri interessi. Che si difendono soltanto se il Paese cresce. A causa dell’invecchiamento, bisognerebbe partire dal welfare, perché in futuro avremo meno risorse per pagare l’assistenza sanitaria e le pensioni. Per esempio, vanno programmati meglio i flussi di immigrazione».
C’è il tentativo di abbassare le tasse a questa fascia di popolazione?
«La pressione fiscale dovrebbe essere ridotta in generale a tutti, mantenendo la progressività e aiutando chi produce».
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