Soltanto i 20mila bar e ristoranti della Capitale lamentano a causa dello smart working 80 milioni di incassi in meno all’anno. Che — secondo le stime della Fipe-Confcommercio — salgono a livello nazionale a un miliardo tondo per tutto il settore, visto che per uno o due giorni alla settimana 3,7 milioni di dipendenti tra pubblici e privati restano a lavorare a casa in smart. E, di conseguenza, non mangiano più fuori, saltano colazioni, pause pranzo e spuntini pomeridiani presso caffè, tavole calde o trattorie.
Fin qui il presente, ma il futuro potrebbe avere — dal punto di vista economico — un impatto ancora più pesante: Confesercenti ha stimato che un allargamento del lavoro agile potrebbe portare in estrema ratio a un crollo dei consumi pari anche a 10 miliardi di euro. Sì, perché impiegati o dirigenti per andare a lavoro fanno benzina. E quando escono o possono approfittare di uno spacco durante la giornata, si tolgono lo sfizio di comprarsi una cravatta o un paio di scarpe, corrono a tagliarsi i capelli, a farsi fare un massaggio oppure ad allenarsi in palestra. Quindi rischia di saltare un indotto immenso, che dal caffè al bar la mattina fino ai cosiddetti servizi alla persona, è linfa vitale per i centri storici e direzionali delle nostre città. Senza il quale accelera soltanto il processo di desertificazione.
LE INTESE
Questa — economica e sociale — è l’altra faccia dello smart working. Che non soltanto è utile per azzerare i tempi morti durante la giornata o per conciliare — durante le ore di lavoro — le esigenze legate alla cura della propria famiglia. Uno strumento che, in tutto il mondo, sembrava aver perso via via il suo appeal dopo la fine del Covid e che adesso — grazie alle spinte del Comune di Roma — potrebbe vivere una nuova stagione. Fino al prossimo 8 gennaio, per ridurre un traffico veicolare impazzito per la presenza dei cantieri delle opere giubilari, il Campidoglio prima ha aperto a un maggiore impiego in smart dei suoi 9mila travet. Cioè quelli che non sono costretti a operare in presenza. Quindi ha firmato un accordo con associazioni datoriali e sindacati per provare a tenere a casa — l’intesa non è vincolante — quante più persone possibili, che lavorano negli uffici privati. Risultato? Roma — compresi i ministeriali — potrebbe ritrovarsi con una platea potenziale di lavoratori in smart vicina alle 40mila unità.
Per capire quello che stiamo vivendo, le luci e le ombre del fenomeno, è utile ascoltare Massimiliano Valerii, sociologo e direttore generale del Censis: «Nessuno nega i pregi del lavoro in remoto, però bisogna valutare tutti gli effetti: penalizza le relazioni umane, non permette ai lavoratori di respirare il clima aziendale, che è vitale soprattutto per chi è entrato da poco in un ufficio o in una fabbrica». Uno scenario che si può traslare alla vita sociale ed economica delle nostre città. «Con lo smart working, abbiamo in giro sempre meno lavoratori e city users. Questo, in primo luogo, ha un impatto sulle attività commerciali come bar, ristoranti e supermercati». Che facendo meno affari, chiudono. «Nei centri storici, come stiamo notando a Roma, i flussi di dipendenti e city users vengono sostituiti da quelli turistici, rendendo sempre più caotici, dei suk levantini i cuori delle nostre città. Turisti che invece sono meno attratti dal visitare i centri direzionali verso le periferie. Con il risultato che zone come l’Eur, senza il personale degli uffici, possono diventare quartieri zombie».
GLI EFFETTI
Come detto, i rischi sono economici e sociali. «Senza la presenza degli “autoctoni”, intesi come lavoratori e residenti, sostituiti dai turisti la vita nei quartieri cambia: c’è minore disponibilità di case, spariscono gradualmente i servizi e crescono i prezzi per i consumi. Stiamo riscontrando “un’inflazione occulta”: al posto dei vecchi bar, dei negozi di abbigliamento o degli artigiani come il meccanico nascono attività che guardano ai turisti, con un target e prezzi più alti. Anche fare la spesa al supermercato o al mercato rionale diventa più caro».
Nell’indotto verso i grandi uffici non vanno dimenticati poi i fornitori di beni come la cancelleria o l’elettronica e i manutentori. Andrea Rotondo, presidente di Confartigianato Roma, ricorda che «le restrizioni della pandemia portarono a un crollo generalizzato pari al 40 per cento del fatturato per le principali attività. Un calo completamente recuperato dal post Covid a oggi. La rinnovata applicazione dello smart avrà un effetto direttamente proporzionale sui nostri fatturati: il 15-20 per cento di dipendenti a lavoro da casa si tradurranno in un altrettanto 15-20 per cento di incassi in meno».
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