21.05.2025
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Politics

sì all’integrazione di settori strategici


Qualche minuto, pochi convenevoli, un iniziale plauso al rapporto sul futuro della competitività dell’Unione europea e, soprattutto, un invito a palazzo Chigi per i prossimi giorni. All’indomani della presentazione con cui Mario Draghi ha provato ad indicare la rotta all’Ue, Giorgia Meloni ha sentito al telefono il suo predecessore con l’obiettivo di approfondire i contenuti del report. Non un unicum — i contatti proseguono saltuariamente da quando la leader di FdI era all’opposizione del governo Draghi — semmai un’occasione utile alla premier per manifestare «il rispetto» e «la considerazione» con cui da sempre si approccia all’ex numero uno della Bce, al di là di una visione non sempre collimante su alcuni aspetti del futuro dell’Unione, ad esempio sulla necessità di abolire il diritto di veto.

Draghi: per il rilancio Ue servono 800 miliardi. No tedesco agli eurobond

La stessa considerazione e lo stesso rispetto che, sottolineano attorno a Meloni, l’hanno spinta a ricevere anche l’altro ex premier Enrico Letta, redattore del rapporto Ue sul futuro del Mercato Unico. Con una piccola differenza: se il dem è andato a palazzo Chigi prima di presentare il suo lavoro agli altri Paesi membri, Draghi è stato invitato solo dopo la pubblicazione del report.

IL REPORT
Un lungo intervento, quello scandito lunedì a Bruxelles, che se a tratti pare una profezia ferale («l’Ue rischia una lenta agonia») dipinge una Unione che fatica a crescere (l’aumento del Pil nel secondo trimestre dell’anno è stato di appena lo 0,2%) e a trovare un posto nella competizione globale sempre più marcata tra Cina e Stati Uniti. Questioni strategiche, su cui l’Ue non può stare a guardare, dall’approvvigionamento sicuro di materie prime ed energia alla nuova corsa agli armamenti.

Senza soldi, però, non si canta messa. E allora il libro di sogni di Draghi, a giudicare dalle prime reazioni, è destinato a rimanere tale perlomeno nella parte (sostanziosa) che riguarda le risorse finanziarie e il reperimento degli 800 miliardi di euro in più all’anno giudicati indispensabili per mantenere l’Ue competitiva (quasi il 5% del Pil, il doppio del Piano Marshall).

L’opposizione più classica è quella dei governi, ma la prima a rispondere picche senza troppe cerimonie, pur essendo padrona di casa, è stata von der Leyen, che dal programma Draghi — ha assicurato — si farà guidare sì nel nuovo quinquennio, ma selezionando con cura gli aspetti meno controversi. Non certo il debito comune sul modello del Recovery Plan, che il connazionale tedesco Christian Lindner, ministro delle Finanze, è tornato a bocciare senza appello: «Ogni Paese deve continuare ad assumersi la responsabilità dei propri conti pubblici». E allora, sottratto il capitolo fondi, cosa rimane a galla del rapporto Draghi, realizzabile in via normativa e anche senza il potenziamento della capacita di spesa comune con gli Eurobond? Anzitutto c’è l’appello (spesso inascoltato) perché l’Ue si doti di una strategia di politica industriale, che von der Leyen farà suo nel programma di lavoro della nuova Commissione.

Con 27 mercati più coesi, tanto da formarne uno solo. Ciò vale per i servizi finanziari, con l’integrazione dei mercati dei capitali che potrebbe mobilitare risparmi privati che altrimenti spesso vanno oltre Atlantico, o ad esempio nel settore delle telecomunicazioni, con pochi operatori ma su scala continentale: sul fronte delle infrastrutture e delle reti, in particolare, il report suggerisce di abbandonare i rigidi schemi dell’Antitrust Ue e di favorire le concentrazioni, soprattutto nei comparti strategici per la competitività Ue. «I cinesi potrebbero esser pronti a esportare treni ad alta velocità in Europa…», ha evocato Draghi, con un riferimento non troppo velato alla decisione con cui, cinque anni fa, Bruxelles bloccò invece la fusione tra due giganti della manifattura ferroviaria come la tedesca Siemens e la francese Alstom. Insomma, è il senso del report: basta concepire la concorrenza come una questione interna all’Ue, tra attori economici dei singoli Paesi; occorre semmai guardare alla competizione esterna. E ciò vale pure in materia di ricerca e sviluppo, dove gli Usa corrono e l’Ue gattona. Prendiamo l’industria farmaceutica: per approvare un nuovo medicinale, al di là dell’Atlantico servono circa 100 giorni in meno, in media. E poi c’è la difesa: il rapporto sposa la linea degli appalti congiunti su cui Bruxelles punta da un po’, e aggiunge l’invito ai governi a comprare più armi “made in Europe”. Così da ridurre la dipendenza dagli Usa a quelle ipotesi in cui ciò è «strettamente necessario».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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