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​«Se avessi paura farei il vostro lavoro»


Luciano Spalletti corre verso i tifosi, canta l’inno di Mameli. Red Bull Arena, è appena finita la partita contro la Croazia. Che fatica, che stress. Sembra felice, invece qualcosa pian piano va storto. Sale il rancore, che aumenta minuto dopo minuto. La vittoria contro Modric porta più rabbia che gioie. Non c’è un attimo di felicità quando si concede alle interviste, un solo momento per sorridere, per godersi ciò che è gli è stato donato con quell’arcobaleno “delpieristico” di Zaccagni al minuto 98, all’ultima azione disponibile. L’Italia, l’Italia di Spalletti, è seconda in un girone di ferro, quindi destinata agli ottavi di finale, a Berlino, città dei ricordi mondiali.

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La rabbia di Luciano Spalletti

Lucio invece, come dice lui stesso, si «inietta il veleno addosso, da solo, senza l’aiuto vostro».

Vostro sta per nostro, dei giornalisti, che gli sono davanti e non lo pungolano, anzi, lo lasciano parlare quasi senza contraddittorio, ascoltano lo sfogo, apparentemente senza motivo. L’umore di Spalletti non è godereccio, è alterato dalla rabbia. Ce l’ha con chi lo «ha preso per il cu… per una sconfitta»; con qualche calciatore spione, con chi non ha capito che giocare con più «prudenza» non vuol dire rinnegare se stessi. Lucio arriva in sala stampa caricato dalla discussione durante una precedente diretta Sky, quando si sente dire da Paolo Condò che l’Italia in campo è stata caratterizzata dalla “prudenza”. La parola magica: prudenza, attendismo, catenaccio. Orrore. Parole contro la sua filosofia, di un uomo che ama attaccare in campo e, appunto, fuori, senza filtri, senza mirino. Così, nel mucchio.

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Il «patto con i giocatori»

Di solito si infuria per legittima difesa, stavolta prende la parole e spunto da una domanda per sobbalzare sulla sedia e attaccare lo spazio, anzi, come dice lui stesso, il mezzo spazio. La domanda si riferiva a un possibile «patto tra giocatori e tecnico». Un patto che avrebbe portato a quella formazione, come già fattogli notare, più «prudente» rispetto a quelle viste con Albania e Spagna. La prudenza, secondo lui non c’era affatto, il discorso era relativo ai troppi errori azzurri («siamo stati sotto il nostro livello»), che hanno schiacciato la squadra nel primo tempo, facendola sembrare prudente. Si gioca a 4, si gioca a 3 («ci ho fatto la tesi a Coverciano su questo modulo», dice), il discorso non cambia «sappiamo fare entrambe le cose», ribadisce con vigore. Al giornalista che parla di «patto», invece, risponde che qualcuno, forse dei giocatori, glielo avrebbe riferito. Non ha l’anello al naso, Lucio: «E lei — affonda il colpo sul collega di Radio 24 — ha cinquantuno anni, io 65, le mancano ancora quattordici anni di pip…». Era una domanda senza alcuna particolare allusione, ma forse il ct non si è fatto scappare l’occasione di mostrare la sua voglia di “io contro tutti”, del “noi contro il mondo”.

Il metodo

Un metodo che spesso ha pure funzionato, portando a risultati insperati. Spagna ‘82 è un esempio, più recente quello di Marcello Lippi nel 2006, appena dopo Calciopoli, quando della Nazionale non ne voleva sapere nessuno. Il nervoso Spalletti si mette sul piedistallo, attacca per non essere attaccato, punzecchia i suoi giocatori e poi li esalta. «Se avessi paura farei il vostro lavoro». Il vostro, sarebbe il nostro: quello di giornalista. Che fa domande, chiede cercando di capire, critica anche, come sempre avviene, giocatori, allenatori e commissari tecnici.

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