Prima di tutto l’immagine dell’Italia. Un Paese che, per citare le parole forse non casuali pronunciate dal Presidente Mattarella ieri a Cernobbio, è «onorabile» finanche quando indossa le vesti scomode del debitore. Prima del politico Sangiuliano, caduto in disgrazia. Prima dell’uomo Gennaro, che ora potrà difendersi davvero. E prima, soprattutto, che una singola vicenda oscuri quanto di buono fatto dall’intero governo fino a questo momento o che incrini in qualche modo l’immagine della premier. Giorgia Meloni ha avuto bisogno di qualche giorno per convincersene davvero. Ma già da giovedì sera ha capito che l’affaire Boccia non avrebbe potuto che concludersi con delle dimissioni. Se n’è resa conto quando la minaccia di un intero esecutivo rappresentato come ricattabile ha iniziato a palesarsi nelle parole che la donna originaria di Pompei ha affidato alla Stampa. Un’eventualità inaccettabile per chi ha rivendicato più volte di aver costruito proprio sulla non ricattabilità una fetta del suo percorso.
E infatti, dopo le anticipazioni dell’intervento, si è subito riattivato il filo diretto che corre tra palazzo Chigi e il Colle per le emergenze, è stata annullata la sua presenza al G7 Parlamenti di Verona e lei si è rivolta senza esitazioni a chi, come Alessandro Giuli, può garantirle operatività immediata. Dall’iniziale difesa del ministro e dal “no” alle dimissioni per motivi sentimentali o di gossip, si è cioè passati alla priorità di voltare pagina il più rapidamente possibile. Tant’è che risultano confermati per questa mattina l’appuntamento a Cernobbio, il bilaterale con Volodymyr Zelensky e, nel pomeriggio, l’incontro a Parigi con gli atleti della Nazionale paralimpica.
L’ITER
Arrivarci però, non è stato così lineare. In primis perché, al di là di una qualche macchinazione politica sospettata dall’inquilina di palazzo Chigi, Meloni è tuttora convinta che non vi siano degli illeciti nella condotta di Sangiuliano. O comunque, come ha detto a chi le è stato accanto nelle ultime ore, che in questa storia vi siano ancora troppe cose da chiarire, a partire dalle chat di cui, a detta della premier, si parla tanto ma nessuno le ha mai viste. E quindi non se l’è sentita di chiedere espressamente il passo indietro al suo ministro. Anche perché — e qui sta uno snodo importante — farlo avrebbe significato in qualche modo ammettere un errore di valutazione da parte sua nella definizione della squadra di governo o nella difesa operata nei giorni scorsi. Tant’è che il messaggio che trapela dall’esecutivo a sera è chiaro: è stata una scelta di Sangiuliano. Eppure in mattinata i vertici dell’esecutivo e di Fratelli d’Italia (ma c’è chi garantisce che a muoversi sia stato anche il Colle) hanno avviato una significativa operazione di moral suasion nei confronti del ministro. L’obiettivo? Tutelare l’onorabilità del Paese, appunto. Intento che l’ormai ex ministro ha colto da subito, ma non accolto immediatamente. E infatti, raccontano nel centrodestra, gli ultimi tentativi di evitare le dimissioni da parte di Sangiuliano hanno creato qualche ora di scompenso a cavallo tra la mattinata e il pomeriggio di ieri. Quando l’opera di convincimento era già partita, è stata pesantemente scombussolata dalle dichiarazioni con cui l’ex direttore del Tg2 ha accolto la notizia di un faro acceso sulla sua vicenda da parte della Corte dei Conti. Quel «Bene l’interessamento, così chiarirò tutto» è suonato strano alle orecchie di chi, a palazzo Chigi, si stava già adoperando da qualche ora nei colloqui con il Quirinale e aveva già contattato Giuli. Un alert che, appaiato con il messaggio scandito al Tg1 qualche sera fa («Sono pronto a dimettermi subito se Meloni me lo chiede») e con la volontà di arrivare almeno a concludere il G7 Cultura, ha fatto scattare l’allarme rosso nel dubbio che Sangiuliano, in assenza di un’indicazione netta da parte della premier, volesse provare a resistere. Ultime resistenze «dell’uomo, più che del ministro» riflettono a via della Scrofa, che però non hanno trovato la stessa comprensione dei giorni precedenti. Il pressing iniziato giovedì sera si quindi è via via fatto più insistente, finendo con il sottolineare come lo stillicidio di rivelazioni di questi giorni avrebbe potuto trasformarsi in una sassaiola qualora si fosse protratto durante la manifestazione internazionale che si terrà a Pompei tra il 19 e il 21 settembre. Anche per questo la celerità è stata la prerogativa su cui Meloni, una volta convinta, ha battuto più di tutti.
LA CELERITÀ
Chiudere la questione ora infatti, significa anche allontanare lo spettro di un vero e proprio rimpasto su cui Mattarella difficilmente avrebbe potuto soprassedere. Le dimissioni post-G7 si sarebbero infatti avvicinate pericolosamente alle date in cui potrebbe arrivare il rinvio a giudizio per Daniela Santanché (l’udienza è fissata il 9 ottobre) e le dimissioni di Raffaele Fitto per raggiungere Bruxelles. Tre poltrone vuote avrebbero rischiato di trasformare l’attuale freddo distacco degli alleati rispetto alla vicenda in un cantiere aperto nel cortile della maggioranza. Ma non di quelli che intende la premier quando, con i suoi, pare cedere ad un po’ di amarezza: «Devo lavorare e non voglio dovermi occupare di queste cose».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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