«I love you», urla una donna tra la folla a Kabir Bedi, l’attore indiano 78enne — dal 2023 ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana — giunto ieri a Torino per presentare al Prix Italia il suo ultimo film, Questione di stoffa. In onda domenica 10 novembre in prima serata su Rai1, la commedia racconta la storia di una sartoria veneta che deve subire la concorrenza di un negozio indiano, che ha aperto nella stessa via. Che l’interprete di Sandokan (il popolarissimo sceneggiato tv del 1976) fosse amato dal pubblico italiano si sapeva, ma l’entusiasmo sembra cresciuto nel tempo. Non a caso un personaggio di Questione di stoffa, appena lo vede, gli dice «Sandokan!», con Bedi che replica ironicamente: «Gli somiglio, ma io sono più alto».
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Cosa ha significato Sandokan per la sua carriera?
«All’inizio è stato ingombrante. Nessuno poteva immaginarmi in altri ruoli. Per questo ho accettato di fare il cattivo nel film di James Bond Octopussy — Operazione Piovra e ho girato la commedia A/R Andata + Ritorno di Marco Ponti: il pubblico doveva capire che sono un attore a tutto tondo. Ma essere ricordato per Sandokan è un onore. È stata una di quelle occasioni che rendono un attore immortale».
In “Questione di stoffa” torna a interpretare un indiano dopo tanto tempo: perché?
«Per molti anni ho preferito evitare, per non essere emarginato dal sistema produttivo Usa. Ma in Questione di stoffa c’era in gioco il rapporto fra l’Italia e l’India: siamo diversi, ma da sempre riusciamo a lavorare insieme perché ci ascoltiamo e ci rispettiamo».
E la concorrenza di cui parla il film?
«Più siamo diversi, più dobbiamo parlarci con sincerità. Vengo da una famiglia profondamente pacifista e so che farsi la guerra è sempre una sconfitta. E una tragedia. Anche se non sono un politico, penso che si dovrebbe fare così in Medio Oriente, per trovare una soluzione: parlarsi».
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Nel film si dice che la vita “è un tessuto in cui i trionfi sono intrecciati agli errori”: quali sono i suoi?
«Come ho scritto tre anni fa nell’autobiografia, Storie che vi devo raccontare, ho attraversato delle difficoltà finanziarie. Ma la perdita di mio figlio, che si è tolto la vita a soli 25 anni, è certamente il mio più grande errore. Perché non sono riuscito a fermarlo».
Per questo in “Questione di stoffa” osserva i suoi nipoti con un’aria così amorevole?
«Forse riverso inconsciamente quella perdita e quell’amore sui giovani. Anche se poi mi rendo conto che i ragazzi sono tutti diversi, e che ogni genere di affetto nasce in autonomia rispetto al passato».
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Nel film la protagonista (Beatrice Sandri; nel cast anche Pierpaolo Spollon) dice di essersi trasferita in Italia perché non riusciva più a sentire l’India come casa sua: è successo anche a lei?
«No, l’India non mi ha mai tradito: è sempre stata casa mia. L’Italia, però, è la mia seconda casa, per l’affetto e il rispetto che continuate a darmi, dai tempi di Sandokan. È anche per questo che per molti anni ho continuato a sentire e vedere Adolfo Celfi, come pure Philippe Leroy, che hanno recitato insieme a me in quella saga».
E Carol Andrè (interpretava la donna amata da Sandokan nello sceneggiato, ndr)?
«Conduce una vita molto riservata. Abbiamo lavorato insieme anche per Il Corsaro Nero (il film del 1976, ndr), eppure con lei non è mai scattata la scintilla. Ci siamo persi».
La Rai produce il remake di “Sandokan”, con Can Yaman al suo posto e Alessandro Preziosi nel ruolo di Yanez: che ne pensa?
«Che non vedo l’ora di vederlo: oggi il cinema offre molte più possibilità di un tempo, a livello tecnologico. Girare è più facile, siamo nell’età dell’oro della settima arte. Insomma, sarà bello vedere come riusciranno a interpretare, in chiave moderna, le emozioni della versione originale».
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