08.12.2025
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Politics

Riforma Farnesina, motore della crescita all’estero. Il ministero cambia pelle (in chiave economica)


In una fase storica in cui la forza sembra essere l’unica misura dei rapporti internazionali, l’Italia decide di scommettere sul soft power. È questo il senso della riforma della struttura della Farnesina, che il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, non ha esitato a definire una «rivoluzione» nel presentarla a Villa Madama davanti al titolare della Pubblica Amministrazione, Paolo Zangrillo, alla presidente della commissione Affari Esteri del Senato, Stefania Craxi e ai rappresentanti di Ice, Simest, Sace e Cassa Depositi e Prestiti. «Il mondo è cambiato e noi dobbiamo dare una risposta ai cambiamenti», sintetizza il leader di Fi. Come? Rafforzando la vocazione economica del Ministero, a supporto dell’internazionalizzazione delle nostre imprese e delle esportazioni. Impegno che viene quantificato: l’obiettivo per il prossimo anno è far crescere l’export dagli attuali 623,5 miliardi a 700 miliardi. Le 130 ambasciate italiane sparse nel mondo diventeranno delle piattaforme per promuovere il made in Italy e per affiancare le aziende che intendono rafforzare la propria presenza o entrare in nuovi mercati.

È quella diplomazia degli affari che Donald Trump sta imponendo come orizzonte geopolitico e che l’Italia intende sposare con un riassetto funzionale a un contesto di dazi e guerre commerciali. Dal primo gennaio la Farnesina diventerà un ministero bicefalo: alla testa politica, ne sarà affiancata una economica.

LE NOVITÀ

Inoltre verrà creata la Direzione generale della Crescita, con compiti di coordinamento che si estenderanno alla cooperazione internazionale, compreso il Piano Mattei. Come dimostra il coinvolgimento degli enti pubblici che promuovono l’economia italiana fuori dai confini, si tratta di una riforma di sistema, alla quale ha lavorato per un anno il segretario generale della Farnesina, Riccardo Guariglia, al fianco di Tajani. «Nella riorganizzazione interna, la maggior parte dei Paesi Ocse si sono effettivamente concentrati sui dicasteri degli Esteri», ha ricordato Zangrillo. «Internazionalizzare non significa delocalizzare, ma l’opposto. E noi non vogliamo che le nostre imprese si sentano sole», annota Tajani. D’altra parte, export si traduce con crescita, se consideriamo che beni e servizi venduti all’estero rappresentano un terzo del Pil. Un comparto in buona salute: nel settembre del 2025 le esportazioni italiane hanno fatto registrare un aumento del 10,5% in termini di valore e del 7,9% in volume rispetto all’anno precedente, nonostante la stagione delle barriere doganali e delle profezie di sventura. Le nostre imprese, anche piccole e medie, stanno dimostrando una notevole resilienza: secondo i dati di Unioncamere, sono oltre 120 mila quelle che esportano abitualmente e 84 mila lo fanno stabilmente.

Ma se il quadro è rassicurante, la cornice lo è molto meno. La crisi del multilateralismo ha travolto anche l’Organizzazione mondiale del commercio, il WTO. L’interdipendenza dei sistemi, soprattutto tecnologici, in qualche modo tiene in vita la globalizzazione, ma in una forma diversa da quella che negli anni 90 del secolo scorso aveva fatto gridare messianicamente alla “fine della storia”. Nel senso che avremmo marciato tutti mano nella mano, contribuendo al benessere reciproco. Non è stato così. Le catene di rifornimento, le fonti energetiche, i microchip, le terre rare: sono diventati armi improprie, strumenti di pressione e minaccia, aut-aut negoziali. In un clima tanto deteriorato, la diplomazia non si esercita più su binari tradizionali e diventa proattiva: deve creare nuovi mercati e nuovi legami, rafforzare l’immagine dell’Italia di pari passo con i suoi prodotti, evitare che nel gioco delle superpotenze l’Europa finisca schiacciata.

Al di là dei dati confortanti, le stime di Unioncamere indicano che non stiamo sfruttando appieno il nostro potenziale: sono circa 17 mila le imprese che potrebbero aggiungersi alla platea di esportatori, se venissero supportate adeguatamente. Ciascun ambasciatore firmerà un Piano di Crescita e negli Stati generali dell’export, a Milano, tutti dovranno a mettersi a disposizione delle imprese per informazioni e prese di contatto. Sullo sfondo della riforma della Farnesina, l’evoluzione non solo della figura delle feluche ma anche della squadra e della composizione delle sedi: più innesti dalle altre amministrazioni, maggiore interdisciplinarietà. La diplomazia negoziale sarà una delle possibili declinazioni, al fianco di quella economica, culturale, scientifica e sportiva. Perché se esiste un soft power italiano, è esattamente questo: la somma delle sue eccellenze e dei suoi testimonial.

In qualche modo legata allo spirito dei tempi e soprattutto alla rivoluzione dell’Ia, è l’altra grande novità: il concorso diplomatico, dal prossimo anno, sarà aperto a tutte le lauree magistrali. Si abbatte il muro di Giurisprudenza, Scienze Politiche e Economia e Commercio. In un mondo in cui bisogna scendere a patti con algoritmi e Big Tech, la formazione umanistica non è più sufficiente. Avremo bisogno anche di ingegneri, matematici, fisici. E ancora nascerà una Direzione sulla Cyber Sicurezza per prevenire e respingere attacchi informatici alla Farnesina. Le semplificazioni, l’implementazione dei servizi per i cittadini all’estero, la creazione di un ufficio dedicato al cosiddetto turismo delle radici, sono le altre tessere di una riforma a costo zero. Che nelle speranze di Tajani e dei suoi funzionari dovrebbe servire però a creare valore, trasformando i diplomatici in manager, le ambasciate in agenzie di promozione, e l’arte della trattativa e delle relazioni nella spinta al sistema Italia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA


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