«Dimissioni? Non ci penso proprio». Scuote la testa Maurizio Landini circondato dai cronisti al Centro Congresso Frentani di Roma, quartiere San Lorenzo. I seggi dei referendum sul lavoro e la cittadinanza hanno chiuso da pochi minuti.
E il responso è impietoso per chi, come la Cgil, si è intestato la corsa alle urne: 30,6 per cento. Ma con la conta nelle circoscrizioni estere potrebbe scendere sotto il 29. Si ferma qui, ben al di sotto del quorum del 50,1, la partecipazione al voto sui cinque quesiti. Il referendum non è valido. Dal quartier generale del comitato per i referendum sul lavoro — che proponevano di riscrivere passaggi importanti del Jobs Act, dai licenziamenti illegittimi ai contratti a termine — Landini ammette che l’obiettivo, cioè il quorum, «non è stato raggiunto». Il sottosegretario a Palazzo Chigi, Giovanbattista Fazzolari, commenta: «Il governo è più forte».
UNA “NON VITTORIA”
Non parla mai di sconfitta il segretario del sindacato “rosso” ma di una «non vittoria» (copyright Bersani nel 2013) e cerca di roteare in mano il bicchiere mezzo pieno: «Ripartiamo dai 14 milioni che hanno votato e chiedono risposte». Ecco: ripartire. Ci prova un po’ tutto il campo largo anche se il boccone è duro da digerire. Parte la segretaria del Pd Elly Schlein. Niente rimorsi, esordisce. «Peccato per il mancato raggiungimento del quorum, sapevamo che sarebbe stato difficile arrivarci, ma i referendum toccavano questioni che riguardano la vita di milioni di persone ed era giusto spendersi nella campagna al fianco dei promotori». Poi il guanto di sfida lanciato a Giorgia Meloni: «Quando più gente di quella che ti ha votato ti chiede di cambiare una legge dovresti riflettere invece che deriderla». Pausa. «Ne riparliamo alle prossime politiche».
Mastica amaro anche Giuseppe Conte: «Leggo dichiarazioni ed esultanze sguaiate dei “tifosi” della politica — tuona il presidente del Movimento Cinque Stelle nel primo pomeriggio — Portate rispetto a circa 15 milioni di cittadini che sono andati a votare». A destra invece si brinda. Inevitabilmente, dopo un week end di inviti agli elettori ad «andare al mare» da parte dei leader, in pieno refrain craxiano. Fatta eccezione per la premier che domenica sera, quando i primi dati sull’affluenza facevano già presagire il flop del referendum, si è affacciata al seggio al Torrino, senza ritirare la scheda e tutto ieri, mentre i suoi gridavano vittoria, è rimasta in silenzio.
I NUMERI
I numeri sono una doccia fredda per il fronte del voto. Alle urne quindici milioni di elettori. Ma nessuno dei cinque quesiti ha superato il quorum. E c’è un flop dentro al flop. Alla domanda sulla cittadinanza — se concederla o meno agli stranieri che risiedono da cinque anni in Italia — solo il 65,3 per cento ha risposto sì, contro il 34,7 per cento dei contrari. Segno che un pezzo di elettorato si è recato ai seggi proprio per dire no alla corsia veloce per la cittadinanza italiana. Quanto alla geografia del voto, consegna un bilancio di chiari e scuri.
Con una netta inversione di tendenza rispetto alle Europee, segnala Youtrend, questa volta quasi ovunque le donne hanno superato gli uomini ai seggi. Astensione genericamente più alta al Sud che al Nord seppur con eccezioni eloquenti: nel Veneto leghista gli elettori sono stati meno che in Campania. Tra le grandi città stravince il partito del non-voto a Firenze con un’astensione record del 46 per cento, seguita da Torino (39,3), Milano (35,4), Roma (34) e Napoli (31,8). Ma la matematica cede in fretta il passo alla politica, nelle ore che seguono gli scrutini.
Da un lato il fronte del referendum — tutto il campo largo tranne il leader di Italia Viva Matteo Renzi che sorride per la sua riforma rimasta intatta, «costruiamo insieme l’alternativa a Meloni, non al mio governo del 2015» bacchetta gli alleati l’ex premier — mentre Landini nega passi indietro dalla leadership della Cgil: «Non era un voto contro il governo ma contro leggi balorde, il nostro obiettivo non era politico» spiega dal quartier generale romano del comitato. Dall’altro la maggioranza fra le cui fila, nel pomeriggio, si alternano sospiri di sollievo e sfottò. La “spallata” al governo preconizzata dal dem Francesco Boccia alla vigilia non è all’orizzonte, «quando l’assalto al Palazzo fallisce, si trasforma in una sconfitta per la sinistra» affonda il leader di Forza Italia Antonio Tajani. E se Matteo Salvini da Fontainbleau, al ritiro dei “patrioti” europei, picchia duro: «La cittadinanza non si regala», il capo di Noi Moderati Maurizio Lupi si porta avanti con il lavoro e propone una riforma dell’istituto referendario, con la soglia per la raccolta firme alzata a un milione.
LA RIFORMA
È un cantiere che promette di diventare incandescente. A sinistra chiedono di tirare giù il quorum, a destra un “filtro” in più per ammettere i quesiti. Magari prevedendo quote per ogni regione, una “norma anti-influencer” per disinnescare gli appelli social dei vip. Se ne riparla più avanti, magari nel ddl di attuazione del premierato. Intanto resta la nuda matematica. Il referendum non è valido. Come la “spallata” che per ora è rinviata. Meloni non commenta in pubblico, con i suoi sorride nelle retrovie per il flop alle urne. Nelle prossime ore vedrà i leader della maggioranza per un vertice politico. Nel menù, fra le altre portate, la legge sul fine-vita.
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