Ormai sono quasi quarant’anni che Federico Buffa esalta come nessun altro l’epica sportiva riuscendo a dare un senso diverso, più profondo e appassionante, alle storie dei suoi grandi protagonisti (ha iniziato nel 1987 a Telereporter, dopo la laurea in Giurisprudenza con una tesi sui contratti di lavoro degli atleti). Forte della lezione di campioni della scrittura come Osvaldo Soriano ed Eduardo Galeano, è diventato uno straordinario narratore – adesso si chiamano storyteller, ma passerà anche questa – che attrae sempre più gente facendo emozionanti connessioni fra presente, passato e futuro: in tv, con i libri e da otto anni anche in teatro. Non a caso da pochi giorni Buffa ha pubblicato per Rizzoli un nuovo volume, che in realtà è il prolungamento di un fortunato spettacolo partito nell’estate del 2023: La milonga del fùtbol – Un secolo di calcio argentino. Ieri l’ha presentato al Festivaletteratura di Mantova assieme al coautore Fabrizio Gabrielli (il 19 novembre sarà in scena al Teatro Olimpico di Roma).
Che cosa ha scritto?
«Un allestimento e un libro che ruotano intorno a un concetto semplice ma importantissimo: se gli inglesi hanno inventato il football, gli argentini dal 1867 in poi hanno creato l’amore per il fùtbol».
Cos’è, una storia su un modo di intendere e vivere il calcio che non c’è più?
«Da loro il calcio esiste ancora come fenomeno di massa fatto di grande tecnica e passionalità. Da noi è tutto finito, contano solo tattica e fisico. Gli argentini cominciano per strada, noi nelle scuole di calcio. Loro si divertono, noi non più. Quello che uno sa fare con il pallone fra i piedi ormai non conta. Lo dice uno come Cesare Prandelli, non io. E gli ultimi Europei ne sono l’ultima conferma».
Quello che faceva Maradona con il pallone cos’era?
«Come si fa a non parlare d’amore con uno che a cinque anni palleggiava per un’ora non con i mandarini ma con le patate. Un mostro, Diego».
Oggi il suo cuore batte per le storie, ma per il resto soffre un po’ o sbaglio?
«Per chi ha 65 anni come me, questo calcio è completamente privo di romanticismo. La mia squadra, il Milan, non ha un giocatore italiano fra i titolari e sono stranieri allenatori, assistenti, proprietà e uomo immagine. Così è finita, dai».
E a 65 anni si sente più giornalista-narratore, scrittore o uomo di teatro?
«Sono un maledetto privilegiato che senza sceglierli si è trovato a fare tre lavori meravigliosi».
Dopo otto anni dalla prima volta ha imparato a stare sul palco?
«Non lo so. Di sicuro è la cosa più bella che mi potesse succedere. Fare l’attore era uno dei miei sogni da ragazzino. L’ultimo dei dieci che scrissi su un foglio bianco mentre al liceo Manzoni di Milano, in assemblea, un giovanissimo Enrico Mentana non finiva mai di parlare».
E che c’entra Mentana?
«Lui era all’ultimo anno, io al primo. Durante il suo lunghissimo intervento…».
Noioso?
«Erano anni molto politicizzati… Vabbè, comunque mi vennero in mente le dieci cose che avrei voluto assolutamente fare nella vita. Recitare era una di quelle».
E le altre nove?
«Erano legate al luogo dove avrei voluto vivere, i viaggi che avrei voluto fare, la libertà che avrei cercato sempre… Tutte cose che dipendevano da me, mentre quella dell’attore era legata agli altri: chi avrebbe puntato su di me e chi mi avrebbe seguito».
Ha compilato altre liste?
«No. Sto bene così. Però, tornando indietro, se fossi stato un uomo coraggioso, avrei fatto scelte più forti».
Non lo è?
«È uno dei miei tanti difetti. Forse sono stato un po’ incosciente perché ogni quindici anni ho avuto bisogno di uscire dalla mia comfort zone e cambiare tutto. Anche se, a pensarci bene, da benestante è troppo facile. I ribaltoni che contano si fanno quando hai poco o niente e puoi farti veramente male. E poi, se avessi avuto figli, mi sarei comportato così o avrei fatto come tutti?».
Qual è la scelta che non fece?
«Nel lavoro ho avuto subito fortuna, ma a trent’anni mi avrebbe fatto bene andare a vivere all’estero, e non ci andai. Avrei dovuto fare almeno un anno sabbatico in giro per il mondo, e anche in questo caso trovai mille scuse per non farlo».
Con il tempo ha recuperato?
«Ho viaggiato tantissimo, ma quando lo fai con fatica perché non hai i soldi, ed è tutto incerto, è molto diverso da quando lo fai e sei tranquillo perché te lo puoi permettere. Sei più ricettivo, impari davvero».
A trent’anni, però, iniziò a frequentare un monastero zen di Milano: ci va ancora?
«No. Adesso vado in un monastero sopra le colline di Fidenza. Mi fa bene».
È appena rientrato dalla Corea: dove vive adesso?
«In Oriente, soprattutto in Giappone, vado spesso perché il mio bisogno di spiritualità mi porta lì da più di dieci anni. La mia casa, però, dal 2006 è in campagna, vicino a Como. Non amo più Milano perché secondo me si è venduta anche l’anima. È diventata più spettacolare, ma sempre più triste e poco ospitale».
Il 27 luglio, un giorno prima del suo compleanno, gli induisti festeggiano Guru Purnima, il giorno in cui gli indiani ringraziano i loro maestri di vita: lei a chi deve qualcosa?
«Festeggio anche io quel giorno e il primo nella mia lista delle persone a cui devo tanto è il professor Zeccardi di Diritto angloamericano, che all’università mi mi insegnò una visione delle cose unica. Devo tanto anche ad Alessandro Nidi, il musicista che mi segue da anni e mi ha fatto capire come stare in scena».
Più di una volta ha detto che lei nella vita ha avuto “un gran culo”? A parte quello, cosa c’è voluto per arrivare fin qui?
«Confermo quello. E il tempismo. Finivo qualcosa, mi offrivano altro che non mi piaceva, e subito arrivava qualcosa che non mi faceva pentire del rifiuto precedente. Mi è andata bene anche con la mia attuale compagna: l’ho conosciuta pochi anni fa quando vivevo un momento molto difficile. Lei mi ha dato stabilità e saggezza, la sua ovviamente».
Le sue ex in passato avrebbero voluto metterla sotto con la macchina: conferma?
«Sì. Avrebbero fatto anche un secondo giro in retromarcia. Sa, in passato mi concentravo poco sulle relazioni».
La cosa più assurda fatta finora?
«A Chicago mi sono buttato dalla metropolitana in corsa. Mi è andata bene, avrei potuto sbattere la testa contro un palo».
Per fare lo sbruffone o per scappare?
«Per salvarmi. Un matto voleva farmi fuori senza un perché, cosa che in America succede a 65 mila persone l’anno».
L’87enne guru della Silicon Valley Stewart Brand, quello della frase citata da Steve Jobs a Stanford nel 2005 — Stay Hungry, Stay Foolish — uno che con il suo Whole Earth Catalog ha inventato Google trent’anni prima, non si è fatto intervistare da lei per un documentario: perché?
«Pur riconoscendo che ci eravamo mossi bene, che avevamo tante informazioni su di lui, ha detto di non avere tempo per le interviste. Peccato, lui è un genio».
Una storia altrettanto interessante da raccontare ce l’ha?
«Certo. Il problema è che quando parlo con un produttore, quello che alla fine mette i soldi, la richiesta è sempre la stessa: ma non è meglio un’altra storia di sport?».
La cosa che le è venuta meglio qual è?
«Oddio, forse Le Olimpiadi del 1936, lo spettacolo che nel 2016 mi ha aperto le porte dei teatri».
Prima dei 70 anni quale sfizio vorrebbe togliersi?
«Non voglio sembrare una stucchevole anima bella, ma fare il volontario in un campo profughi. Fare le iniezioni con i vaccini. Ecco, qualcosa di inequivocabilmente utile».
A un ragazzo che sta per fare una lista con le dieci cose da fare assolutamente nella vita cosa suggerirebbe?
«Di non perdere mai la propria originalità e di non seguire troppo quello che viene detto dagli altri».
Al parchetto con il cane quando andrà?
«Mi vedo più come Umarell che controlla il lavoro degli operai. Diciamo che fino a quando le funzioni vitali me lo permetteranno, resto in pista. Dopo il Covid ho fatto una marea di esami clinici, quelli che non avevo mai fatto prima».
Risultato?
«Il cantiere può attendere».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Leave feedback about this