«Io non sono un uomo». La nuotatrice trans Lia Thomas che (stra)vinceva sempre nelle gare femminili alle quali si era iscritta battendo ogni volta le concorrenti grazie alla sua struttura muscolare decisamente più potente rispetto a quella delle donne, ha perso la causa che aveva avviato contro World Aquatics. L’organismo internazionale le aveva vietato di partecipare alle gare nella categoria femminile. Thomas aveva ribadito di avere completato il processo ormonale per la transizione già nel 2019 e di sentirsi a tutti gli effetti una donna.
La Corte di Arbitrato per lo Sport (TAS) ha respinto l’appello dell’atleta sostenendo che «semplicemente non ha il diritto di impegnarsi con l’ammissibilità a competere nelle gare».
La corte sportiva ha concluso che i requisiti operativi non possono essere determinati dalla situazione attuale.
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Anche se World Aquatics insiste sul suo impegno ad essere inclusivo e a promuovere un ambiente di giustizia e rispetto per gli atleti di tutti i generi, questa decisione implica per Lia Thomas di non competere alle Olimpiadi di Parigi 2024. Il caso ha suscitato un ampio e lacerante dibattito mettendo al centro la partecipazione di atleti transgender alle competizioni sportive. Da un lato ci sono donne che lottano per il loro diritto di competere in campionati collegiali, universitari e professionali, che si oppongono fermamente alla partecipazione di atleti trans. D’altra parte, invece, un movimento di opinione sostiene che occorra permettere ai trans di competere secondo le identità di genere scelte.
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Nel caso di Thomas, la sua partecipazione ai campionati universitari aveva portato la National Association of University Athletes a stabilire un limite massimo di testosterone nel sangue come criterio per considerare una persona come donna ammissibile alle competizioni femminili. Anche se Thomas si era sottoposto a trattamenti con soppressori di testosterone, manteneva sempere un vantaggio evidente sulle sue rivali. Sebastian Coe, campione olimpico e direttore del World Athletics, ha detto che le differenze biologiche sono innegabili e che «il genere non può superare la biologia».
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