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perché il leader M5s oggi non si schiera con Kamala Harris e rischia di spaccare il campo largo


Quello tra Donald Trump e «Giuseppi» Conte è un amore nato in un caldo agosto di qualche anno fa, quando entrambi erano commander in chief, alla Casa Bianca come a Palazzo Chigi. Era il 2019 ed il Tycoon era nel pieno della sua ascesa. Ancora in possesso del suo account Twitter, Trump dispensava attacchi e carezze in 140 caratteri. Lì, dopo che le loro due strade si erano già incontrate a Washington e scontrate sul rapporto da tenere con Pechino, l’allora presidente degli Stati Uniti si mostrò entusiasta del premier italiano «pieno di talento» con cui non vedeva l’ora di continuare a lavorare, nonostante il Papeete. Ne storpiò il nome, è vero, ma Conte non ci ha mai badato troppo, concentrandosi su altri segnali di vicinanza: «Siamo i governi del cambiamento» hanno annunciato più volte.

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Al punto che oggi, cinque anni dopo, pare sentirsi ancora un po’ «Giuseppi», e si schiera al fianco di Trump nella corsa verso Washington (senza assalto a Capitol Hill stavolta, si spera). Dall’alto di un’antica stima personale che spera possa fruttargli un rapporto privilegiato qualora tornasse al potere, il leader del Movimento 5 stelle non vede un’eventuale vittoria di The Donald come una «minaccia per la democrazia». D’altra parte, aggiunge intervistato da Repubblica, quello del pericolo per le istituzioni «è un argomento che non ho mai usato contro Meloni». Esattamente ciò che invece dicono e pensano i colleghi del campo largo, impegnati in questa fase ad accendere un faro su Kamala Harris. Inevitabile quindi una nuova crepa all’interno della già fragile intesa. Lo dimostrano le molteplici reazioni sdegnate piovute dal Nazareno e da Italia viva a suon di «Inaccetabile», «Conte si sbaglia» o «Per il centrosinistra l’unica alternativa è Harris». Ma pure le meno attese rimostranze arrivate dalla Sardegna: «Io voterei dem, ho già fatto campagna per Obama e la rifarei per Kamala» ha tuonato la governatrice 5S Alessandra Todde.

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Dopo che la politica estera aveva già messo in crisi la relazione giallorosa (con il sostegno all’Ucraina che ha visto posizionamenti nettamente differenti), le frasi del leader pentastellato hanno avuto un effetto detonatore su una coalizione che pare litigare su tutto. Sui veti nei confronti di Matteo Renzi, ma pure sull’unica gamba più o meno stabile del loro difficile rapporto: i territori. Con il dem Andrea Orlando già schierato per guidare l’alleanza alle elezioni Regionali in Liguria, il M5S ha ben pensato di mettere in campo il nome alternativo del senatore Luca Pirondini. Il tutto mentre anche l’equilibrio interno al partito che fu di Luigi Di Maio è sul punto di implodere dopo il risveglio dell’Elevato, Beppe Grillo. 

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