Senza riforme per cambiare rotta, 800 miliardi di investimenti all’anno, e pure l’addio al tabù del debito comune (che subito ha riportato i tedeschi sugli scudi), l’Ue rischia «una lenta agonia». E di diventare irrilevante in un mondo dominato dalla competizione tra Cina e Stati Uniti. L’Europa secondo Mario Draghi assume le sembianze di un report a tinte fosche, perlomeno nella parte che elenca tutte le ragioni per cui il Vecchio continente non riesce a sfruttare il suo potenziale inespresso; ma il documento offre anche una serie di ricette precise per uscire dal tunnel, rendere la macchina più coesa e veloce, e rilanciare così crescita, industria e lavoro.
Nella sala stampa di palazzo Berlaymont a Bruxelles, davanti al pubblico delle grandi occasioni, l’ex premier e governatore della Banca centrale europea ha consegnato nella mani di Ursula von der Leyen il rapporto sulla competitività che la presidente della Commissione Ue gli aveva affidato esattamente un anno fa: 400 pagine dense di analisi e raccomandazioni che, ha assicurato la tedesca, guideranno (in buona parte) l’azione del suo prossimo esecutivo e saranno inserite nelle lettere d’incarico dei nuovi commissari.
LA PRODUTTIVITÀ
Draghi non nasconde la gravità del momento per un’Europa che fatica a diventare più produttiva: «Per la prima volta dalla Guerra Fredda, l’Europa deve veramente temere per la propria sopravvivenza». Certo, i punti di forza a livello nazionale non mancano, ma per Draghi vanno coordinati «convertiti in industrie competitive sulla scena mondiale». Basti pensare all’innovazione: «il divario con gli Usa, oggi, deriva dall’incapacità dell’Ue di capitalizzare sulla rivoluzione digitale negli anni Novanta». Errori da non ripetere adesso in vari ambiti, dalle telecomunicazioni, dove serve più consolidamento, alla difesa, per comprare armi “made in Europe” (tra i 10 settori strategici su cui si sofferma il report).
Accanto alla costruzione di una vera politica industriale per l’Ue, è sulla mole di finanziamenti necessari per non rimanere indietro che si sofferma a lungo Draghi: transizione verde, digitale e miglioramento della difesa richiedono un aumento degli investimenti pari a poco meno del 5% del Pil. Cioè, «750-800 miliardi di euro all’anno. Minimo». Cifre da capogiro, pari al doppio degli aiuti forniti dal Piano Marshall nel secondo dopoguerra, che ammontavano all’1-2% del Pil, ricorda l’ex banchiere centrale. E per quanto il report giudichi fondamentale il completamento del mercato Ue dei capitali, il risparmio privato da solo non può bastare a mobilitare i fondi.
RISORSE E AIUTI
Ed ecco che Draghi, candidamente, tocca il nervo scoperto dell’Ue: il debito comune; cioè la ripetizione o, meglio, la messa a sistema, dell’esperienza del Recovery Plan. Risorse comuni per obiettivi condivisi, reperite sul mercato emettendo Eurobond. Lo promuove, a distanza, un altro ex di palazzo Chigi, il commissario uscente all’Economia Paolo Gentiloni («Siamo di fronte a una sfida esistenziale: per essere competitivi abbiamo bisogno di più innovazione e più investimenti comuni»), ma al fianco di Draghi von der Leyen fa orecchie da mercante, ben consapevole che un tema così divisivo tra gli Stati non aiuta la sua nascente Commissione-bis: gelida sul debito comune, la tedesca ricorda che «prima c’è la definizione di priorità e progetti comuni, poi due strade possibili (per aumentare il budget Ue, ndr): finanziamenti nazionali o nuove risorse proprie» (cioè le “tasse” Ue). Anche il connazionale Christian Lindner, ministro delle Finanze di Berlino e falco di rito, stoppa il pressing di Draghi: il debito comune «non risolverà alcun problema strutturale: alle imprese non mancano le sovvenzioni; semmai, sono incatenate dalla burocrazia e da un’economia pianificata. Più debito pubblico costa interessi, e non crea necessariamente maggiore crescita». L’Ue, insomma, si fa trovare divisa all’appuntamento con il report più atteso dell’anno. Ma anche per questo l’ex premier ha una soluzione: ampliare il ricorso al voto a maggioranza qualificata (anziché all’unanimità) tra i governi, e andare avanti con l’integrazione in determinate materie con quei Paesi che ci stanno, bypassando i veti.
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