Una politica che metta al centro il futuro dei giovani, andando oltre il battibecco quotidiano. E che faccia recuperare il valore del dialogo e del multilateralismo, per allontanare la previsione di Papa Francesco di una «terza guerra mondiale a pezzi». Pier Ferdinando Casini riassume così i contenuti dell’incontro di ieri con Papa Leone.
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Presidente Casini, qual è il messaggio che vi ha consegnato il pontefice?
«Quello di una politica da vivere come missione. La politica può essere professione, ma ciascuno deve sentirla come una missione. Non è un caso se l’esempio a cui dovrebbero ispirarsi i governanti cattolici è quello di Tommaso Moro, che nel 2002 Papa Giovanni Paolo II proclamò nostro santo protettore. E che pur di difendere le sue idee, affrontò il patibolo con grande serenità».
Un esempio “alto”, rispetto alla politica di oggi…
«Sì, ma il nostro compito è cercare di non smarrire la strada. Pensiamo al tema del debito ecologico, che Papa Leone oggi ha messo al centro della riflessione, ossia dello squilibrio in termini di risorse che si sta creando con le giovani generazioni. Abbiamo costruito una società che sta consumando il futuro dei propri figli. Anche dal punto vista economico: basta pensare alle tutele di cui le generazioni attuali godono, come il sistema pensionistico, e il rischio che in futuro non stiano più in piedi. Temi su cui il Papa ci chiede di agire con maggiore incisività, anche superando quelle sterili contrapposizioni da campagna elettorale permanente che paralizzano la politica».
A proposito di contrapposizioni: che ne pensa della piazza anti-riarmo che ha visto sfilare parte del centrosinistra a Roma?
«Tutte le manifestazioni, quando sono pacifiche, vanno rispettate. L’unica cosa che faccio notare è che sventolare le bandiere della pace non è sufficiente. Vanno costruite le condizioni affinché la pace possa esistere. Questo pomeriggio in Campidoglio il segretario di Stato Vaticano, Pietro Parolin, ci ha richiamato al recupero del multilateralismo. Perché la crisi delle organizzazioni multilaterali come l’Onu rappresenta non a caso una delle ragioni di sconnessione del mondo. Se oggi sperimentiamo una “terza guerra mondiale a pezzi”, come indicato da quella profetica espressione di Papa Francesco, questo avviene anche perché il potere di moral suasion delle organizzazioni multilaterali non esiste più. In questo scenario, il rischio è che l’elemento che regola i rapporti tra le società sia la forza: chi ne ha di più vince. Ma non è questo il mondo che possiamo lasciare ai nostri figli».
Che effetto fa risentire vecchi slogan come “fuori l’Italia dalla Nato”, o veder bruciare bandiere dell’Ue?
«Le bandiere dell’Europa date alle fiamme sono il segno di una difficoltà a capire. Posto che bruciare qualunque bandiera è sbagliato, se oggi ce n’è una da sventolare è proprio quella dell’Europa. È di più Europa che c’è bisogno se vogliamo rilanciare un’idea di Occidente, inteso come sistema di valori che le picconate di Trump hanno messo in crisi. Quanto alla Nato, davvero qualcuno pensa che se costruiamo o rafforziamo un esercito lo facciamo per invadere qualche Paese? Naturalmente no, lo facciamo per difenderci: è a questo che serve l’Alleanza».
Intanto però la possibile escalation in Iran genera preoccupazione. Come può muoversi l’Europa?
«La prima cosa da fare è riportare Teheran al tavolo. Ottenere garanzie, ora che l’Iran è in un momento di debolezza, sul ritiro del programma nucleare per scopi militari. E cercare di evitare che questo incendio si propaghi».
I “focolai” in effetti sono molti, a cominciare da Gaza.
«Sì, ma con una differenza. Mentre l’opinione pubblica è stata solidale con i palestinesi nel non accettare il massacro a Gaza, il tema del rapporto tra Israele e Iran è molto più complesso. In altre parole: la paura del nucleare iraniano ce l’hanno in tanti, anche in Europa. E molti che esecrano l’attacco in realtà sono ben contenti dell’iniziativa di Israele».
A suo avviso alla fine Trump interverrà nel conflitto, come molto fa supporre?
«Nonostante le sue smargiassate, Trump in questo momento segue l’iniziativa di Netanyahu: da solo non è in condizione di incidere. È Netanyahu che dà le carte. E che per molte ragioni vuole continuare la guerra».
C’è chi paragona l’attacco all’invasione dell’Iraq nel 2003, motivata dalle presunte armi chimiche in mano al regime di Saddam. Sta succedendo lo stesso?
«Fino a un certo punto. L’Aiea ha chiarito che in Iran vi sono stati dei passi concreti verso la produzione di testate nucleari, passi ritenuti inaccettabili dalla stessa Agenzia. Per questo la situazione non è la stessa dell’Iraq: la minaccia, in questo caso, è molto più reale».
Nei giorni scorsi da presidente dell’Unione interparlamentare ha ospitato alla Camera la conferenza sul dialogo interreligioso, che di certo si è svolta in un momento particolare.
«Un’occasione di confronto e scambio con i rappresentanti di tutte le religioni. C’erano leader sunniti, sciiti, ebrei, ortodossi, anglicani, buddisti. Gli stessi che oggi hanno ascoltato il Papa. Un armistizio delle contrapposizioni della politica e delle religioni di cui si sente il bisogno. E in cui è tornato forte il monito di Giovanni Paolo II: nessuna guerra si può fare in nome di Dio».
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