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Obiettivi green flessibili, ma all’Italia non basta


Non è (ancora) la temuta débâcle diplomatica, ma di certo l’Ue non manda un segnale di unità politica sugli obiettivi climatici alla vigilia dell’inizio, domani, della Cop30 di Belém, in Brasile. Il “Green Deal” è sbiadito se non proprio azzoppato e, dieci anni dopo gli Accordi di Parigi, alla conferenza Onu sul clima l’Ue rischiando di mettere in luce tutte le sue spaccature interne.

A tarda sera, dopo quasi 12 ore di trattative a oltranza interrotte da numerose pause per facilitare capannelli e compromessi in formati ristretti, i ministri dell’Ambiente riuniti in via straordinaria a Bruxelles non avevano ancora trovato la quadra per dare luce verde al nuovo target di riduzione della CO2 pari a -90% entro il 2040. In bilico non è l’iscrizione dell’obiettivo nero su bianco in un provvedimento normativo: la cifra — una tappa intermedia (rispetto ai valori del 1990) tra il taglio del 55% al 2030 e le emissioni nette zero al 2050 — non è in discussione. Lo scontro in piena regola tra i governi riguarda le condizioni e le cautele con cui arrivare all’obiettivo. In particolare, la possibilità di frenare e chiedere una revisione del target ogni due anni, e un aumento della porzione di interventi favorevoli all’ambiente da realizzare fuori dall’Ue ma da calcolare per il raggiungimento del 90%, concessioni presenti nell’ultima bozza di compromesso.

IL FRONTE

L’Italia ha messo insieme un fronte eterogeneo di una decina di Paesi che puntano i piedi e chiedono maggiori garanzie: ci sono i soliti noti del blocco orientale, cioè Polonia, Repubblica Ceca (il cui nuovo governo appena insediatosi ha promesso guerra al “Green Deal”), Ungheria e Slovacchia, ma anche Grecia, Belgio, Romania e Bulgaria.

«Nonostante significativi passi in avanti non siamo ancora al punto di equilibrio», aveva avvertito al mattino il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, facendosi interprete della richiesta italiana di includere nel testo un riferimento «ai biocarburanti sostenibili per il settore del trasporto su strada», un’alternativa ai veicoli elettrici che “salverebbe” il motore a scoppio. L’ipotesi, a sera, era sembrata finire su un binario morto, lasciando presagire un voto contrario del nostro Paese, o al massimo un’astensione. Un suo ritorno in gioco, invece, potrebbe portare il governo italiano a dire sì.

Per approvare il target climatico serve la maggioranza qualificata, cioè almeno 15 Paesi Ue su 27 che rappresentino il 65% della popolazione. Bastano quattro governi a costituire una minoranza di blocco. Insomma, i numeri sono appesi a un filo.

DA DUE MESI

Lo stallo va avanti da mesi. Due settimane fa erano stati i capi di Stato e di governo a piantare dei paletti di principio e a fare appello alla cautela per scongiurare che i vincoli della transizione verde mettano alle strette la competitività industriale di un’Europa schiacciata tra Usa e Cina. Da lì il mandato a tecnici prima e ai ministri poi di definire in concreto i contorni di un -90% accettabile per tutti. Un’impresa più ardua del previsto, in un’Ue divisa tra i governi che evocano politiche pragmatiche e quelli che frenano su un annacquamento delle ambizioni (Spagna e nordici in prima linea), oltretutto nel giorno in cui le Nazioni Unite hanno certificato che, seguendo l’attuale traiettoria delle emissioni, il pianeta si avvia verso un riscaldamento «catastrofico».

Al centro delle trattative dell’ultima ora sono principalmente i tempi e le modalità per far ricorso ai crediti internazionali di carbonio, cioè la possibilità concreta di “scontare” dal calcolo delle emissioni in casa gli interventi favorevoli al clima realizzati in altri angoli del mondo, ad esempio piantando alberi che contribuiscono alla cattura della CO2 in aree disboscate dell’Asia.

A luglio, presentando la sua proposta, la Commissione aveva limitato questo tipo di interventi al 3% del totale (un numero non casuale, è lo stesso contenuto nell’accordo di grande coalizione in Germania) e a partire dal 2036. Due elementi contestati da Roma e Parigi, che si sono schierati a favore di un aumento al 5% della quota di crediti extra Ue con un anticipo al 2031 della tabella di marcia per farli entrare in attività. Nel compromesso non ancora votato a tarda sera, affiora il 5% secco senza estensioni (Varsavia voleva il 10%).

Dall’ok al target del -90% entro il 2040 dipende un secondo numero, cioè l’aggiornamento del contributo Ue agli sforzi globali sul clima entro il 2035, che dovrebbe collocarsi tra il 66,25 e il 72,5%. Per la Commissione Ue è fondamentale che arrivi prima dell’inizio della Cop30, per evitare che Ursula von der Leyen si presenti a Belém a mani vuote.


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