Luigi Di Gregorio, professore, politologo, autore di War Room, un vero e proprio manuale accademico e operativo di campagne elettorali. Lei è il mister Wolf del centrodestra?
«No no… quella è (Pulp) fiction. Le campagne elettorali sono un gioco di squadra, un’orchestra in cui il candidato e i leader nazionali dirigono e gli altri sono musicisti. Per le ragioni che tutti conosciamo, questa era un’elezione sentita e importante, per cui si è deciso di rafforzare “l’orchestra” e di moltiplicare l’impegno sull’asse Roma-Ancona. Tutto qui, io ero solo uno dei musicisti».
Ci elenca il suo palmares? Campagne elettorali vinte, quelle perse. La prima, Alemanno 2008: la più dura?
«L’elenco comincia a essere lungo… In 20 anni ovviamente ho visto vittorie e sconfitte. La prima campagna fu Alemanno-Veltroni 2006, e fu una sconfitta più che annunciata, al primo turno. Quella del 2008 (Alemanno-Rutelli) è stata intensissima e a suo modo storica, ma forse la più dura fu Polverini-Bonino del 2010. Riuscimmo a vincere nonostante l’assenza della lista dell’allora Popolo delle Libertà nella Provincia di Roma, un territorio che vale i tre/quarti degli elettori di tutta la regione».
Più difficile far vincere Acquaroli o Rocca nel Lazio?
«Non c’è paragone. Rocca era avanti di 10 punti nei sondaggi e abbiamo vinto addirittura di 20. Eravamo in piena “luna di miele” del governo Meloni con un’onda nazionale che sembrava uno tsunami. Le Marche arrivavano dopo 3 anni di governo Meloni ed erano state ribattezzate l’Ohio d’Italia… col centrosinistra che già parlava di voglia di cambiamento in tutta la nazione. Sulla carta, era un’elezione molto più competitiva».
Ci racconti questa campagna elettorale. Nei sondaggi, all’inizio, Acquaroli era partito sotto. Poi?
«In realtà, praticamente nessun sondaggio ci ha mai dato in svantaggio. C’è stata una fase iniziale in cui i due candidati erano più vicini. Poi, tutte le rilevazioni hanno segnato un incremento del margine per il centrodestra. Gli ultimi pubblicati, a due settimane dal voto, davano un vantaggio di 5-6 punti, indicativi di una tendenza che poi è stata confermata dal +8% finale, lunedì sera».
Quando è intervenuta la task force da Roma?
«Si è attivata a maggio, a inizio campagna. Con un crescendo di intensità con l’avvicinarsi del voto».
Qual è stato il ruolo di Bocchino?
«Italo ha lavorato a tutto campo su comunicazione e rapporto coi media. Anche Andrea Moi, responsabile della comunicazione di Fdi, ha dato un grande apporto, insieme a tutto il suo team. Ma, ci tengo a dirlo, abbiamo supportato una squadra già collaudata a livello locale, fatta di ottimi professionisti e di splendide persone, soprattutto». Puntare sul territorio, non sulle questioni nazionali o internazionali. Non cavalcare le inchieste. Solo questo o c’è altro, nella strategia politica?
«Il messaggio era semplice: rivendicare i risultati dei primi cinque anni e spiegare perché serviva continuità per portarli a termine. Ovviamente una buona strategia deve anche essere dinamica e capire se c’è da cambiare strada o no, in base alle mosse dell’avversario. Loro hanno iniziato la campagna sostenendo di essere in “corsia di sorpasso” e che Acquaroli scappava dai confronti per non prestare il fianco. In realtà, credo di non aver mai assistito a tanti confronti elettorali in una singola campagna. In più, tutti i sondaggi pubblicati ci davano nettamente avanti a 15 giorni dal voto. Queste due cose hanno costretto Ricci a cambiare strategia, e hanno scelto di puntare anche su Gaza e la Palestina. La questione mediorientale è un tema sentito e importante, ma è un argomento nazionale, non riverbera sui livelli locali. Da un candidato presidente di Regione gli elettori vogliono sapere cosa fa per le liste d’attesa, non se riconosce lo Stato palestinese (competenza che non spetta alle Regioni, peraltro)».
Ci racconta un episodio, un aneddoto, una curiosità di questa campagna elettorale? La mossa decisiva?
«Paradossalmente, la mossa decisiva è stata quella di esserci attenuti alla nostra strategia e al nostro messaggio: stick to the message, come dicono gli americani. Ossia, se le cose funzionano, non bisogna farsi distrarre e restare aderenti alla narrazione. I tentativi di farci deragliare sono stati diversi, ma siamo stati bravi – più di tutti Francesco Acquaroli – a non inciampare nelle diverse “trappole” che, logicamente, chi inseguiva ha cercato di metterci sul sentiero. In quei casi è facile farsi prendere dall’emotività e reagire, ma significa andare a giocare sul terreno preferito dello sfidante. Non l’abbiamo fatto e questa aderenza alla strategia alla fine ha premiato».
Molte di queste campagne le ha fatte con Andrea Augello, scomparso di recente. Cosa ha imparato da lui?
«Sono talmente tante cose che ho deciso di dedicargli il mio libro».
Ernesto Menicucci
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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