Nelle riunioni riservate con i suoi più stretti collaboratori a Palazzo Chigi capita sempre più spesso che lo sguardo di Giorgia Meloni si stagli oltre l’orizzonte della legislatura. Vuole cercare la premier la “pietra d’angolo” su cui montare la campagna elettorale che, nelle sue intenzioni, o almeno speranze, dovrà rilanciarla alla guida del governo per altri cinque anni. Una pietra chiamata giustizia.
Di tre grandi riforme — un passo indietro, anzi due, il premierato e l’autonomia leghista — è l’unica che sicuramente vedrà la luce in Parlamento nei prossimi mesi. Lunedì il via libera al Senato. Sondaggi riservati sulla scrivania di Meloni la convincono che è una battaglia di “buonsenso”, la separazione delle carriere di pm e giudici, ma anche di consenso: il gradimento pubblico per la magistratura italiana, spiega un ministro che conosce bene la leader di Fratelli d’Italia, è «ai minimi storici». Sarà per questo che dopo qualche iniziale esitazione da mesi il piede è sull’acceleratore. E l’impugnazione della sentenza Open Arms da parte dei pm palermitani, ieri pomeriggio, convince Meloni ad accelerare ancora di più. Con una vera e propria chiamata a raccolta dei suoi elettori, e di tutto il centrodestra, all’ordalia sulla giustizia italiana che servirà da trampolino, fra meno di due anni, per le prossime politiche. Ieri la presidente del Consiglio ha preso in mano il cellulare e ha voluto sentire Matteo Salvini.
I CONTATTI FRA I LEADER
Scegliendo d’impeto, mentre la notizia anticipata dal Corriere era ancora fresca, di sfogare sui social lo “stupore” e lo “sdegno” per «il surreale accanimento, dopo un fallimentare processo di tre anni» dei pm di Palermo. Dietro le quinte, la sensazione crescente di un “agguato” alle porte, da parte di un pezzo di magistratura, contro la destra al governo. Evocato ieri da Nordio quando di fronte alla convention di Fratelli d’Italia sulla mafia, al Tempio di Adriano, ha previsto «aggressioni di vario tipo» all’orizzonte. Senza spiegare quali. Tornate sotto al tappeto negli ultimi mesi, sepolte dalle vicende internazionali che hanno scalato l’agenda politica, tornano a crescere le tensioni fra poteri dello Stato. Sotto lo sguardo vigile e preoccupato — in silenzio, per ora — del Quirinale. Ieri, nei colloqui privati con i suoi più stretti, Salvini si è lasciato andare a un lungo sfogo sui pm e la giustizia italiana. Assai meno cauto, nei toni, della linea scelta invece per le dichiarazioni pubbliche sulla mossa della procura di Palermo. «Alcuni pm non si vogliono rassegnare» il bilancio affidato dal leader della Lega a chi lo ha cercato al telefono, confessando «stupore e rabbia» per l’ennesimo colpo di scena del caso Open Arms che si credeva chiuso una volta per tutte alla vigilia di Natale. «Dopo quattro anni di processo e decine di testimonianze che hanno portato all’assoluzione, si rischia di cominciare tutto da capo?» batteva i pugni a tarda sera il segretario del Carroccio. Salvo frenare gli istinti più bellicosi dell’ala oltranzista nel partito, pronta a ingaggiare un nuovo scontro pubblico con le toghe: «Non è uno scontro tra politica e magistratura, i magistrati politicizzati e di sinistra sono ormai una esigua, anche se rumorosa, minoranza», la linea ai parlamentari. Lo scontro però è già nei fatti. Evidente anche nelle dichiarazioni durissime del governo di queste ore. Meloni è la prima a mettere in conto nuove scintille man mano che il via libera alla riforma si avvicina così come il referendum per confermarla. Un segnale “ostile”, a Palazzo Chigi, è stato letto nella stessa inchiesta della procura di Roma sul caso Almasri che vede tutt’ora indagati Meloni, Piantedosi, Mantovano e Nordio. Ai piani alti dell’esecutivo monta l’ira per la tattica “dilatoria” dei pm romani e dello stesso tribunale dei ministri che ha chiuso le indagini ormai da settimane e a breve presenterà le conclusioni. «Un’archiviazione è lo scenario più probabile — riflette un big del governo — vanno avanti solo per metterci sotto pressione».
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