BRUXELLES «Non accettiamo accordi preconfezionati. A questo punto se ne riparla tra dieci giorni», al prossimo summit già in calendario, dice Giorgia Meloni ai suoi. La cena informale tra i leader dei 27 Paesi Ue chiamati a disegnare il volto della nuova leadership dell’Unione comincia con oltre due ore di ritardo, dopo i caminetti tra popolari, socialisti e liberali (le tre teste della maggioranza di larghe intese con cui Ursula von der Leyen vuole continuare a governare l’Ue) e interlocuzioni che proseguono a singhiozzo, scandite da pause tecniche che fanno saltare al presidente francese Emmanuel Macron l’altro match di giornata, quello della sua nazionale. Ma il poker di nomi messo sul tavolo, e il metodo con cui è stato impacchettato, risulta indigesto per la premier, che prima di arrivare all’Europa Building ha incontrato le varie anime della destra Ue e serrato i ranghi.
Von der Leyen, dalla presidente della Commissione ai vertici Ue: le tappe verso la nomina (e di costituzione del nuovo Parlamento)
In attesa del summit di fine mese, quello che sulla carta dovrebbe sciogliere la riserva sul futuro di von der Leyen alla guida della Commissione, ma anche sulle altre poltrone di vertice: il socialista portoghese António Costa al Consiglio, la liberale Kaja Kallas come capa della diplomazia e la maltese Roberta Metsola per ancora due anni e mezzo all’Europarlamento (che tuttavia deciderà in autonomia rispetto alle manovre dei leader il 16 luglio, alla seduta costitutiva). Sul tavolo, però, non c’è solo l’accordo “noto”, che per l’Italia si tradurrebbe in una casella di peso nel prossimo esecutivo comunitario, possibilmente con una vicepresidenza, ma pure il tentativo più o meno evidente all’interno della costola popolare che gioca di sponda con i liberali di Macron e i socialisti di Olaf Scholz di arginare l’ultradestra e tenerla fuori dal risiko delle nomine.
LA PARTITA
Donald Tusk, il premier polacco che per conto del Ppe conduce i negoziati sulle poltrone Ue insieme al collega greco Kyriakos Mitsotakis non ha riservato troppe cerimonie all’ipotesi di un coinvolgimento della leader italiana nella partita: «Non è mio compito convincere Meloni; abbiamo già una maggioranza con Ppe, liberali, socialisti e altri piccoli gruppi, la mia sensazione è che sia già più che sufficiente», ha risposto a chi gli chiedeva conto degli equilibri politici per la nuova Commissione, lasciando il pre-summit di tutti i pezzi da novanta dei popolari. Proprio da lì Antonio Tajani prova a difendere la premier: «Credo che non si possano chiudere le porte ai Conservatori perché una realtà così variegata come il Parlamento europeo non può chiudersi in una maggioranza a tre: bisogna mantenere il dialogo».
Ancor più fermo è però stato il cancelliere tedesco Olaf Scholz, che arrivando a Bruxelles ha ripetuto il mantra già affidato alla stampa sotto gli ulivi di Borgo Egnazia, non senza l’irritazione della padrona di casa: nessuna apertura a Meloni e ai suoi. «È chiaro che in Parlamento non deve esserci alcun sostegno per una presidenza della Commissione che si basi su partiti di destra e populisti di destra», ha ribadito Scholz, puntellando semmai il perimetro della «maggioranza stabile» delle stesse forze politiche «che finora hanno lavorato a stretto contatto in Parlamento». Cioè, di nuovo, popolari, socialisti e liberali. Senza innesti. Men che meno di destra. A costo di tirare dritto e di finire per sbandare (o persino per sbattere): se per strappare un bis di von der Leyen tra i leader del Consiglio europeo serve una maggioranza qualificata a portata di mano, i numeri sono ben più ballerini in Parlamento, dove per la conferma servono 361 voti a scrutinio segreto. Von der Leyen ne ha già oltre 400, ma deve pure scontare un alto rischio franchi tiratori.
I BILATERALI
E così di fronte al muro che vede prendere forma per estrometterla dalla futura euro-maggioranza, Meloni decide di cominciare la giornata ripartendo dai partner parlamentari e con il piglio della federatrice. Di una destra che unita in Europa non è (ancora), ma che si parla e si coordina. Per gli incontri con i suoi partner europei che anticipano la cena informale dei leader in cui dovrà chiarire se c’è o meno il suo nulla osta su von der Leyen, votando cioè assieme ai socialisti per ottenere «più peso» nella Ue, la premier ha scelto il suo solito hotel al centro di Bruxelles, l’Amigo. Contrariamente all’agenda ufficiale che la vede al Consiglio europeo alle ore 18, Meloni è sbarcato in Belgio di prima mattina. Ad attenderla in una saletta riservata, lontana dai giornalisti assiepati all’ingresso, ci sono tra gli altri i due luogotenenti Carlo Fidanza e Nicola Procaccini. Con lei, invece, arriva il ministro per gli Affari Ue Raffaele Fitto.
Il primo faccia a faccia è con loro, per serrare i ranghi del suo gruppo prima che le trattative entrino nel vivo. «Per noi il rischio è perdere alcune delle delegazioni» ragiona chi, al tavolo, gestisce il pallottoliere. Il ragionamento è semplice: in questa fase i conservatori hanno bisogno di stare in equilibrio, tra la spinta a destra che potrebbe ingolosire chi tra i conservatori — come una costola del PiS polacco — potrebbe seguire Marine Le Pen, e quella al centro, che invece potrebbe schiacciarli sul Ppe. Un punto di forza che Meloni ha in mente di valorizzare. Prima, però, c’è un altro equilibrismo di cui dar prova: Meloni deve tenere viva la fiammella del dialogo con l’ungherese Viktor Orbán che, alla ricerca di una collocazione all’Europarlamento corteggia l’Ecr con i suoi 10 neo-eletti di Fidesz, e chiede tempo all’alleato polacco Mateusz Morawiecki (ricevuto per primo all’Amigo) per tenere unito il fronte conservatore prima della prossima mossa.
Ben consapevole che nella stessa Ecr c’è chi non vede di buon occhio un’adesione dei magiari. Una linea rossa «su cui siamo stati sempre molto chiari», dice l’eurodeputato nazionalista fiammingo Johan van Overtveldt vedendo Meloni nel giro di colloqui del mattino. Anche in questo caso però, la premier non vuole intese decise a monte. Se ne riparlerà, questo è certo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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