A palazzo Chigi, come al Viminale, la parola chiave di ieri era una sola: ricorsi. Più che storici per la data iconografica per l’esecutivo, si tratta però di ricorsi giuridici. Al centro c’è sempre il decreto Paesi sicuri varato in Cdm lunedì. Il testo che al tavolo ministeriale è stato solamente letto dal sottosegretario Alfredo Mantovano, senza che nessuno dei presenti potesse averlo tra le mani, è infatti già cambiato. A seguito di una lunga giornata di valutazioni che hanno compreso anche la possibilità di convertire l’intero pacchetto sotto forma di emendamento al Dl Flussi, nella versione definitiva del provvedimento è stata inserita una norma che prevede il ricorso in Corte d’Appello contro le ordinanze del Tribunale sul trattenimento dei migranti. Ordinanze che fino a questo momento potevano essere impugnate solamente in Cassazione. Non una vera e propria novità. Questo tipo di intervento era infatti stato anticipato dalla stampa nei giorni scorsi, salvo registrare uno stop (e il successivo stralcio dal testo entrato nel Cdm di lunedì scorso) che in molti hanno attribuito a delle possibili contrapposizioni con il diritto europeo e, soprattutto, a delle perplessità del Quirinale. Dubbi non confermati che potrebbero però essere sciolti a brevissimo, non appena il Dl sarà a tutti gli effetti tra le mani del Capo dello Stato Sergio Mattarella. Nessun intoppo, garantiscono fonti di governo, rassicurate da una lunga interlocuzione con il Colle e convinte che il Presidente dovrebbe promulgare il testo senza ricorrere ad una lettera di rilievi come accaduto per il caso della direttiva Bolkestein dopo che è stato superato il nodo sull’attribuzione del ricorso ai giudici di pace piuttosto che alla magistratura ordinaria.
La definizione ultima del testo di certo però non pone la parola fine sullo scontro in atto tra il governo e la magistratura. E non solo perché l’ovvia conseguenza di quanto accaduto fino ad oggi è che le navi cariche di richiedenti asilo presto ricominceranno a muoversi verso i centri di Gjader e Shengjin in Albania o perché è attesa per il 4 dicembre prossimo la risposta della Cassazione al quesito pregiudiziale inviato a luglio scorso (ancora prima della sentenza della Corte Ue di Lussemburgo) dai giudici del Tribunale di Roma, competente sulle procedure del protocollo Italia-Albania. Prima che l’esecutivo e il ministero dell’Interno annunciassero ieri di aver dato mandato all’Avvocatura di Stato per presentare il ricorso in Cassazione contro la mancata convalida del trattenimento dei dodici migranti poi trasferiti in Albania, di buon mattino le toghe hanno infatti risposto alle accuse di non aver compreso la sentenza della Corte di giustizia europea lanciata in conferenza stampa dal ministro della Giustizia Carlo Nordio.
LE TOGHE
«I giudici non possono assumere decisioni ispirate dalla necessità di collaborazione con il governo di turno» si legge in una nota affatto conciliante dell’Associazione nazionale dei magistrati poi inasprita dal segretario di Magistratura democratica, Stefano Musolino: «Questo decreto non fa che esasperare il conflitto e di questo noi siamo molto preoccupati, perché se c’è una cosa che noi non vorremo è il conflitto». A spalleggiare le toghe non solo l’opposizione che è tornata a chiedere a Giorgia Meloni di riferire in Parlamento ma pure l’Ue. La sentenza contestata da Nordio, ribadisce un portavoce dell’Ue, è «immediatamente vincolante per gli Stati membri». In sostanza, un giudice nazionale, quando interviene su un caso di una persona proveniente da un Paese designato come «sicuro», deve stabilire se possano esserci delle «violazioni alle condizioni sostanziali» della designazione stessa, qualora la domanda di asilo venga rigettata. In pratica sembrano addensarsi ulteriori nubi sui palazzi romani. Se in Parlamento riprendono quota o accelerano la separazione per le Carriere e la riforma per la Corte dei Conti voluta da FdI, e sui social la Lega torna ad alzare i toni («Dalle toghe ci si aspetta che applichino la legge, che non cerchino di ribaltare il voto popolare e che la smettano di fare comizi sfruttando ruolo e impunità»), i giudici ieri si sono rivolti al Csm. Sedici consiglieri hanno infatti depositato al Comitato di presidenza dell’organo di autogoverno della magistratura una richiesta di apertura di una pratica a tutela della categoria.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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