10.05.2025
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Politics

Meloni prova a mediare: «Stati centrali nella Ue». La telefonata con Matteo: fate dietrofront


Un bivio insidioso. Aprire un fronte con Matteo Salvini, riaccendere le tensioni nel centrodestra a una settimana dal voto europeo. O fare scudo alla Lega, rispedire al mittente le accuse delle opposizioni e dunque, indirettamente, sposare l’affondo contro il Quirinale. Non si aspettava una domenica così Giorgia Meloni. Non immaginava la premier che la Festa della Repubblica sarebbe finita in sordina, con le sue marce e i suoi squilli di tromba, coperta dall’ultima polemica che investe la maggioranza.

È il primo pomeriggio quando i collaboratori della presidente del Consiglio le inoltrano i lanci di agenzie sul tweet di Claudio Borghi. L’attacco con richiesta di dimissioni del senatore della Lega, consigliere fidatissimo del leader Matteo Salvini, al Capo dello Stato Sergio Mattarella per aver celebrato «la sovranità europea». I flash fanno sgranare gli occhi alla premier così come allo stato maggiore di Fratelli d’Italia. È un pessimo momento, ragionano ai piani alti del partito di via della Scrofa, per aprire uno scontro istituzionale tra governo e Quirinale. E se Salvini in serata prova a mettere una pezza, «nessuno chiede le dimissioni di Mattarella», il timore che passi questo messaggio cresce man mano che monta come panna la polemica delle opposizioni.

IL BIVIO

Elly Schlein, Giuseppe Conte, Matteo Renzi. Uno ad uno chiamano lei, la premier, a rispondere della sortita di Borghi e di Salvini, che difende il suo amico e ideologo. Tentenna, la timoniera di Palazzo Chigi, ma d’intesa con i suoi consiglieri preferisce aspettare. Evitare un cul de sac apparentemente inevitabile. Qualunque cosa dica, può trasformarsi in una scossa tellurica per il governo e in un assist ai rivali a pochi giorni dalle urne che decideranno l’Europa di domani.

Sono scrupoli che non si fa Antonio Tajani, il leader di Forza Italia ormai in aperta competizione con il vicepremier leghista per una sfida elettorale che si preannuncia combattuta fra alleati, con Lega e Forza Italia in corsa per il secondo posto sul podio del centrodestra. Meloni non può permettersi la durissima presa di distanze del segretario azzurro, la solidarietà aperta al Colle che suona come sconfessione del “Capitano”. Dunque prende tempo.

I PALETTI

Nel merito, anche se i registri sono opposti, il Meloni-pensiero non è poi così lontano dal manifesto sovranista di Borghi. Non si fatica troppo, riavvolgendo il rullino, a ritrovare espressioni della premier non così distanti dal pensiero condensato nella prima parte del tweet leghista che ha scatenato la bufera. «Noi vogliamo un’Europa forte e autorevole, che faccia meno ma faccia meglio — esordiva Meloni lo scorso marzo in un messaggio per il Centro studi Livatino.

Proseguiva con l’invito all’Ue di occuparsi «dei grandi temi, a partire dalla politica estera e di sicurezza comune» e di lasciare «tutto il resto alla libertà e alla sovranità delle Nazioni». E a un orecchio attento non sfuggirà come le parole pronunciate da Meloni ieri durante le celebrazioni per il 2 giugno siano solo in parte allineate al discorso di Mattarella sulla sovranità europea. «Questa festa ci ricorda anche che la prima idea di Europa immaginava che la sua forza, la forza della sua unione, fosse anche la forza e la specificità degli Stati nazionali». Non esattamente un manifesto federalista.

Le convergenze però finiscono qui. Perché Meloni non vuole e non può permettersi di aprire un fronte con il Quirinale sull’Europa. È il prezzo per la doppia veste che la leader è costretta a indossare e a volte risulta ingombrante, specie a ridosso delle urne: premier e capo-partito, leader del governo e della destra italiana. Ha per questo soppesato con attenzione e prudenza le parole durante la parata, al fianco di Mattarella.

Sicché l’improvviso affondo leghista contro il Colle — da dove invece non trapelano reazioni, se non un’alzata di spalle, «è la campagna elettorale..» — viene accolto con freddezza, se non aperta irritazione dalla premier e dal suo partito. C’entra il tempismo, si diceva. Non solo per le elezioni, ma per una stagione di delicatissime (e contestate) riforme istituzionali che richiedono un canale aperto, se non addirittura un via libera, da parte del Quirinale. Una tessitura cercata con fatica per la separazione delle carriere di pm e giudici, la riforma della Giustizia limata fino all’ultimo tra Quirinale e Palazzo Chigi. Poi certo, c’è la competizione a destra che si nutre anche di questi blitz, del sovranismo d’antan rispolverato all’ultimo miglio della campagna elettorale per agganciare gli elettori incerti o perfino delusi da una destra istituzionale nella plancia di comando del Paese.

Un elettorato che vede sempre più spesso Fratelli d’Italia e Lega intenti a tirare da un lato all’altro della fune. Ognuno pronto a schierare un jolly. Salvini si affida a Vannacci, scommette sul Mondo al contrario (di destra) dell’ex Parà. Meloni riapre a Marine Le Pen, rimescola le carte a Bruxelles. Sul Colle però non si scherza. La fune si può spezzare.

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