ROMA «Ma quale rottura. Vedrete che nel rapporto tra Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni nulla cambierà: la collaborazione favorisce entrambe. E nessuna delle due ha interesse a metterla in dubbio». La previsione arriva da fonti del centrodestra di governo. Ma al di là della (legittima) lettura politica, è probabile che il pronostico contenga qualcosa di più di un semplice “pio desiderio”. Una prima conferma del peso dell’Italia in Ue, inevitabilmente, si avrà solo quando la rieletta presidente della Commissione assegnerà i portafogli ai rispettivi Paesi. Ma è lecito attendersi che nessuna delle due “donne che daranno forma alla nuova Europa” (secondo una copertina dell’Economist che includeva nel terzetto pure Marine Le Pen) sia intenzionata a tagliare i ponti con l’altra, nonostante i mancati voti di Fratelli d’Italia al bis ai vertici di palazzo Berlaymont.
IL NODO CONTI
Tutto come prima, dunque? Si vedrà. Ma è innegabile che Meloni abbia tutto l’interesse a mantenere un dialogo costante e costruttivo con chi nei prossimi cinque anni guiderà il governo dell’Ue. Non foss’altro che per una convenienza matematica. Che parte dal nuovo Patto di Stabilità, e dall’avvio della procedura di infrazione per deficit eccessivo che il 19 giugno la Commissione ha recapitato a Roma (insieme ad altri sei Paesi). Il motivo? Il 7,4% di sforamento sui conti del 2023, gravati tra le altre cose dalla zavorra del Superbonus, rispetto al massimo consentito del 3%. Procedura che, pur non ancora tecnicamente avviata, imporrebbe da sola un piano di rientro di almeno lo 0,5% del deficit annuo, qualcosa come 10 miliardi di spese da tagliare su ogni nuova finanziaria.
Una partita che, per complicare ulteriormente il quadro, si interseca con l’adozione del nuovo Patto di stabilità e crescita. Che prevede, per i Paesi ad alto debito come l’Italia, il via piani di rientro in quattro o sette anni, per riportare i conti su binari sostenibili. Il problema, anche qui, è che serviranno tagli alla spesa. Secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, almeno 10-12 miliardi all’anno (pari a 0,5-0,6 punti di Pil) in caso di piano settennale. Soldi difficili da trovare, tanto più con un deficit stimato ancora sopra al 3% (al 4,3% nel 2024 e al 3,7 nel 2025 secondo il Def, anche se per la Commissione sarà rispettivamente del 4,4 quest’anno e del 4,7 il prossimo).
Numeri che fanno temere una manovra “lacrime e sangue”: la sola conferma del taglio al cuneo e dell’Irpef a tre aliquote, per esempio, richiedono circa 14 miliardi l’anno. E un addio a quei provvedimenti potrebbe avere un costo politico elevato, per Meloni. Ecco perché il dialogo con la Commissione (e un suo esponente italiano nella tolda di comando) sarà un fattore chiave, per cercare di ammorbidire il processo di aggiustamento.
COMPROMESSO
Von der Leyen, dal canto suo, non pare ostile a questo tipo di approccio. Quello da “falco” non è mai stato il suo stile, preferendo in genere la ricerca di compromessi “win-win”. È grazie a questo atteggiamento che all’Italia è stato concesso di rinviare una parte delle riforme legata alla quinta rata del Pnrr, per non bloccare il pagamento dell’intera tranche (tagliata da 20 a 11 miliardi).
Una strategia che, dalle parti dell’esecutivo, molti sono propensi a credere non cambierà. E non solo perché avrebbe poco senso alienarsi le simpatie di uno dei grandi Paesi fondatori. Ma pure per ragioni pratiche: i voti italiani (e quelli di FdI all’Eurocamera), nei prossimi cinque anni potranno rivelarsi preziosi per Ursula. In particolare su dossier come il taglio del 90% delle emissioni e lo stop ai motori a combustione. Temi su cui sono molte le contrarietà tra i Popolari, partito di cui von der Leyen fa parte. E su cui, dunque, non è escluso che in aula si formino nuove maggioranze, che escludano i Verdi e imbarchino invece i Conservatori di Meloni.
E poi c’è il fatto che la presidente della Commissione deve fare i conti con una cinquantina di franchi tiratori. Il che significa che la sua maggioranza è fragile. E che l’apporto di Ecr su questo o quel provvedimento potrà fare la differenza. «Anche nei passati due anni noi non facevamo parte della sua maggioranza, ma questo non ha impedito a noi di aiutare la Commissione quando ritenevamo che fosse nell’interesse italiano ed europeo», ha detto ieri Meloni al Corriere. «Non ho ragione di credere che non sarà così anche nel futuro». È probabile che anche von der Leyen la pensi così.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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