Appena prima dell’ora di cena di lunedì a tirare il freno è stata pure Giorgia Meloni. Se fino al pomeriggio la premier si era detta pronta ad andare in Aula per votare il suo consigliere giuridico come nuovo componente della Corte Costituzionale, dopo decine di telefonate e chiamate alle armi, quando il pallottoliere tenuto dalla maggioranza ha palesato il risultato che sarebbe poi arrivato ieri, la premier ha indicato la necessità di votare scheda bianca e, quindi, ritirato quel «Se serve ci sono» che aveva affidato ai suoi. Meloni, confermano più ministri, è convinta che non vi sia alcun conflitto di interessi nell’indicazione di Marini (e infatti ne conferma la candidatura non reputandolo “bruciato” dopo la votazione andata a vuoto di ieri) e pure che è legittimo che il nome del giurista passi «anche per un solo voto», il suo. In altri termini se ieri il blitz è fallito a causa della scelta dell’opposizione di non entrare in Aula rifugiandosi sull’Aventino, non è detto che la premier non si presenterà all’ingresso dei catafalchi alla prossima occasione.
I TEMPI
Quando sarà è però presto dirlo. L’idea palesata anche da fonti vicine alle presidenze di Camera e Senato è quella di procedere con convocazioni periodiche (quella di ieri era già l’ottava chiama). Ovvero, dal punto di vista di Palazzo Chigi, la tentazione è avanzare a tappe forzate con l’obiettivo di stanare l’incoerenza istituzionale della sinistra. Andare alla ripetizione al voto — nel rispetto dell’invito recapitato alle forze politiche a luglio da Sergio Mattarella — «inchioda» l’incoerenza di Pd, M5S, AVS, Azione e Iv. «Dovranno spiegare al Quirinale questa cosa» tuona Giovanni Donzelli in Transatlantico, smontando l’idea di una «forzatura istituzionale». In maggioranza si studia quindi già il calendario. La prossima settimana non può essere quella giusta dato che Meloni è attesa a Montecitorio e palazzo Madama per le consuete comunicazioni prima del Consiglio Ue. Votare subito prima rischierebbe di regalare un’occasione di visibilità all’opposizione. Farlo dopo invece, rischia di agitare i fantasmi di una missione internazionale rovinata dall’aula, come fu per il Def bocciato ad aprile 2023 mentre la premier era a Downing Street. Posta la volontà di eleggere Marini prima del 12 novembre, giorno in cui la Consulta deciderà sul ricorso delle Regioni sull’Autonomia differenziata, restano quindi tre slot per riconvocare la seduta congiunta. All’inizio della settimana del 21 ottobre (bisognerà dare modo agli eletti liguri di portare avanti la campagna elettorale e Meloni stessa sarà a Genova il 25). Poi durante le due settimane successive.
Le tempistiche non sono un dettaglio, è vero. Ma non lo sono neppure le presenze. A fronte di una maggioranza ferma a 355 parlamentari (senza contare solo Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana), per Marini servono 8 voti. Se il negoziato con il M5S può riprendere, non è escluso che Meloni possa provare una sorta di “operazione scoiattolo” di berlusconiana memoria per compiere una prova di forza (già ieri c’erano esponenti di Iv e dell’Svp pronti). Un modo anche per stemperare gli animi bellicosi di chi, come il Pd, punta a portare la votazione a dicembre per beneficiare dell’accoppiata del voto per Marini con quello per altri tre membri della Corte in scadenza.
Un’ipotesi però rigettata dalla maggioranza, convinta che questa soluzione porterebbe solo all’alzarsi della posta da parte delle opposizioni, dato che per le prime tre votazioni servirebbero 403 preferenze. Non è un caso insomma se ieri, anziché rimandare tutto, si sia scelto di «far vincere il signor bianchi» come dice bonariamente il vice-capogruppo di FdI a Montecitorio Manlio Messina. L’obiettivo non era solo forzare la mano all’opposizione ma pure contarsi. Cioè, spiegano a via della Scrofa, capire le reali intenzioni della Lega. I 6 eletti del Carroccio che al mattino si sono dati per malati (a fronte di 12 défaillance poi accertate quando le presenze non erano più fondamentali) non sono andati esattamente giù a FdI. Tant’è che non è escluso che Meloni porti il tema sul tavolo quando tra oggi e domani (prima del cdm) potrebbe ricevere Salvini a palazzo Chigi (con Tajani in video-collegamento dalla missione in Brasile) per uno dei consueti appuntamenti dei leader della maggioranza.
Per ora la sola certezza è che la premier è a dir poco irritata per come è andata l’intera vicenda. L’accordo che prevedeva il sostegno del M5S in cambio della direzione del Tg3 portava la sua firma ed è stato bruciato dalle fughe di notizie dei suoi parlamentari. Per la premier quindi la scelta di Elly Schlein di tenersi fuori dall’aula facendo saltare il banco è imputabile ai troppi spifferi che attraversano i gruppi parlamentari. «Ma pure del suo autoritarismo» sostengono invece ai vertici della Lega: «Lei ha pensato di avere in tasca la partita quando ancora non aveva sufficienti garanzie».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il punto del direttore, ogni Lunedì alle 17
Iscriviti e ricevi le notizie via email