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licenziamenti di massa e perdite per oltre 15 miliardi. Ora si teme la rivolta


La grande svolta a Est promessa da Putin non ha salvato l’industria del carbone. Al contrario, il settore è travolto da una crisi senza precedenti: secondo le stime del Ministero dell’Energia, le perdite nel 2025 raggiungeranno i 350 miliardi di rubli (4,4 miliardi di dollari), triplicando i già disastrosi numeri del 2024. Tra gennaio e maggio di quest’anno, le perdite ammontano già a 112 miliardi di rubli. Il debito complessivo dell’industria supera i 1.200 miliardi (15,1 miliardi di dollari), mentre gli investimenti nel settore sono in crollo verticale. Il viceministro Dmitry Islamov prevede che non raggiungeranno nemmeno i 248 miliardi di rubli dell’anno scorso. Nel frattempo, come riporta un lungo report di The Insider, esplode la questione salariale: diverse miniere non riescono a pagare i dipendenti. A giugno, la miniera Spiridonovskaya nel Kuzbass, con 900 lavoratori, ha chiuso i battenti. Ai dipendenti spettano ancora 90 milioni di rubli in arretrati. 

Crisi senza precedenti

La crisi energetica europea del 2022 sembrava inizialmente una benedizione per il carbone russo, con le rotte verso la Cina a sostituire quelle europee. Ma i limiti infrastrutturali dell’Est — con la Transiberiana satura e la linea Bajkal-Amur inadeguata — hanno reso il trasporto più costoso. Le esportazioni sono state declassate rispetto ad altri beni più redditizi, come metalli e prodotti chimici. Solo il carbone del Kuzbass ha mantenuto temporaneamente la priorità logistica. Intanto, i prezzi globali del carbone calano, la domanda cinese si contrae, e le importazioni russe verso Pechino sono scese del 18% a maggio su base annua. L’India resta il secondo mercato, seguita da Turchia, Corea del Sud e Taiwan. Un altro colpo arriva dalle sanzioni occidentali, che hanno interrotto la fornitura di attrezzature minerarie occidentali, sostituite con macchinari cinesi meno performanti. Secondo una fonte russa citata da The Insider, «è come passare da una Mercedes a un’utilitaria coreana». I costi di produzione sono saliti del 30%, azzerando i margini di profitto.

Le difficoltà non sono uniformi. Regioni come la Jacuzia e Vorkuta resistono meglio, sostenute da grandi gruppi siderurgici come Severstal e Mechel. Ma il cuore della crisi è il Kuzbass. L’ex roccaforte carbonifera soffre il crollo della domanda, la fuga di investimenti, e un sistema politico in transizione dopo l’uscita di scena del potente Aman Tuleyev. La regione ha un debito pubblico vicino ai 100 miliardi di rubli, pari al 42% del bilancio. Il deficit stimato per il 2025 è di 22 miliardi. Per far fronte alla situazione, le autorità hanno tagliato i fondi per i servizi sociali, mentre circolano voci di fallimento smentite dal governo locale.

Scioperi e proteste

Nel 2024, oltre la metà delle aziende carbonifere era in perdita. Ventisette imprese erano sull’orlo del collasso, undici miniere hanno chiuso. Ma la chiusura comporta costi sociali e rischi di disordini: licenziare interi bacini minerari potrebbe destabilizzare regioni intere. In molti casi, le autorità locali impongono alle aziende di continuare a operare in perdita. Negli anni ’90, i ritardi nei salari erano la norma. Ora sono tornati. Secondo Kemerovo & Kuzbass News, in alcune miniere i pagamenti arrivano con mesi di ritardo. Gli scioperi vengono repressi: a Inskaia, i lavoratori sono stati licenziati dopo aver organizzato uno sciopero della fame. Contro alcuni imprenditori sono stati aperti procedimenti penali.

Il malcontento cova sotto traccia. I lavoratori parlano di stipendi gonfiati durante le visite presidenziali e ridotti alla fame oggi. «La gente non vive, sopravvive», dice Larisa, residente a Kemerovo, intervistata da The Insider. I salari mensili oscillano tra i 20.000 e i 40.000 rubli (250–500 dollari), mentre pochi privilegiati superano gli 80.000. Le condizioni di lavoro restano durissime. Il metano, nemico invisibile, viene spesso ignorato per non fermare la produzione: «Lavorare sottoterra è un gioco con la morte», afferma un operaio. Eppure, sempre più minatori preferiscono il fronte alla miniera: il rischio è simile, ma la paga, per chi sopravvive, è più alta. Anche i tagli nei soccorsi incidono. A Yurga, la squadra di emergenza è stata sciolta per dati falsificati, e molti ex soccorritori sono finiti direttamente al fronte. «Almeno per la Duma non fanno questo tipo di reclutamento», ironizza qualcuno.

Mentre Mosca discute soluzioni tampone — come sconti ferroviari o rinvii fiscali — e accenna a nazionalizzazioni (VEB.RF è ora il curatore fallimentare di alcune imprese), non emerge una strategia concreta. Il presidente della VTB Bank, Andrey Kostin, è stato l’unico a rompere l’ipocrisia, dichiarando apertamente: «Produciamo troppo carbone. Le miniere inefficaci devono chiudere». Nel frattempo, il Kuzbass tenta timidi passi verso la diversificazione. Progetti per GNL e turismo sono in cantiere, ma la trasformazione è lenta e malvista dalla popolazione. Le miniere chiudono, i debiti aumentano, e Sberbank continua a concedere prestiti con interessi superiori al 22%. La sensazione, tra chi vive a contatto con la polvere di carbone, è che nessuno abbia un vero piano per il futuro.


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