La guerra in Ucraina «finirà più con una tregua che con una pace vera, e dentro questa tregua io credo ci sarà più unità in Europa». Per Giulio Tremonti, ex vicepremier e ministro dell’Economia, oggi presidente della Commissione Esteri della Camera, «il passaggio considerato necessario dai diplomatici è la cessione di territori dell’Ucraina: non si può scindere la sicurezza dal territorio, prima viene la cessione e poi le garanzie. Ora Putin vuol vedere Zelensky a Mosca. Proposta interessante, con un forte valore simbolico e una caratura iconografica. Ma la grande questione che si aprirà sarà l’allargamento dell’Unione».
Un processo lungo quello dell’adesione alla Ue?
«Nei trattati c’è scritto che gli Stati europei possono entrare. Finora l’approccio è stato paternalistico: conti a posto, perfetto Stato di diritto. Ma se non allarghi a Est una volta fermata la guerra, lo farà Putin da Ovest. E non solo con la guerra, ci sono tanti modi asimmetrici per farlo. La mia idea è: all in, tutti dentro. Ovviamente devi cambiare il sistema di voto, l’unanimità non funziona nemmeno nei condomini. Ma devi rafforzare i confini e aprire l’Europa. Altrimenti sarà la Russia a fare il giro opposto».
In che modo allargarsi?
«C’è una diaspora, i giovani che vengono da quei Paesi vogliono l’Europa. Ci sono i Balcani, la Moldova. Le sacche di odio non possono fermare il futuro dell’Europa. La grande partita è la maggiore unità politica e di difesa, a cominciare dalle sedi multilaterali. La democrazia non è perfetta, non lo erano il Regno Unito di Churchill che imprigionava Turing per omosessualità o l’Italia di De Gasperi che metteva in carcere la Dama Bianca per adulterio. Ma nessuno pensava che Italia o Inghilterra non fossero democrazie. La democrazia non la esporti, va dal basso verso l’alto».
L’Occidente come lo conoscevamo è finito?
«Già Obama ci aveva detto che l’asse doveva passare dall’Atlantico al Pacifico. Ma il carattere comune e il destino positivo dell’Occidente resta uno ed è la libertà. L’America, anche con Trump, è la terra della libertà. Non è solo New York o Los Angeles, è anche la parte centrale. La storia dell’America è storia di libertà. E la libertà non la sopprimi con gli ordini esecutivi. Tutto questo viene da lontano, io ne ho scritto dai tempi dei tempi. Alla fine degli anni ’80, caduto il Muro, ci fu un’operazione di élite, una fase dominata dagli illuminati. L’alternativa al vecchio mondo diviso tra democrazia e comunismo si era posta già nel 1975, nel castello di Rambouillet, con la nascita del G6 poi diventato G7. Il luogo politico del mondo centrale era quello: 700 milioni di persone unificate da un codice politico, la democrazia occidentale; da un codice linguistico, l’inglese; e da un codice economico, il Washington consensus. Il resto dell’umanità ruotava per attrazione, interesse, suggestione attorno al G7, che poi divenne G8 con la Russia».
E negli anni ’90 l’ideologia della globalizzazione?
«Sì, con il passaggio da liberté, égalité, fraternité a globalité, marché, monnaie. Un assetto che vedeva il mercato sopra, popoli e Stati sotto. La matrice positiva era il mercato. Clinton cambiò le vecchie leggi del New Deal: per muovere i solidi servono i liquidi. Disse: la Cina è in cammino verso il progresso e la democrazia. Obama, insediandosi, aggiunse: non abbiamo il passato, abbiamo solo il futuro. Di positivo la fine della povertà in molte aree del mondo, di negativo l’inquinamento. Soprattutto, era una costruzione artificiale in cui l’Occidente tradiva secoli di politica, tradiva sé stesso. Nel ’94 già scrivevo nel “Fantasma della povertà” che i capitali sarebbero andati in Asia e ci sarebbe stata manodopera a basso costo, l’Occidente avrebbe importato ricchezza verso l’alto — Wall Street, i servizi, poi la Silicon Valley — e povertà verso il basso, con la fine della manifattura».
Come si arriva ai dazi di Trump?
«La dottrina dei dazi significa questo: pagateci la manifattura che abbiamo perso. Il vicepresidente Vance, nel libro “Elegia americana”, racconta la fine della manifattura nella Cintura della Ruggine. Riveda “Il Cacciatore”: le grandi fabbriche che oggi sono ruderi. Quel fantasma ha dormito per trent’anni e si è svegliato, ha votato repubblicano, è arrivato al Liberation Day incorporato nell’operaio di Detroit a cui viene promesso lavoro. La logica dei dazi è la rottura del mondo artificiale degli illuminati, delle élite intellettuali e dei capitali».
Quando è crollato il castello?
«L’artificiosità diventa evidente con la Brexit, con l’emersione delle destre in Europa, la diffidenza e il disimpegno di Putin dal G8. Il Mundus Furiosus di cui scrivevo nel 2016 ha portato a Trump. La genialità della sinistra finanziaria è stata l’austerità, la Troika in Grecia con Juncker, Lagarde e Draghi. Lagarde disse: “Siamo gli eroi del nostro tempo”. Poi con la crisi passarono dall’austerità alla liquidità. Noi italiani al G20 proponevamo regole: non puoi vivere in un mondo in cui l’unica regola è l’assenza di regole».
Quale il ruolo dell’Italia, ieri e oggi?
«La politica italiana è sempre stata per l’unità europea. E oggi i segnali si vedono. L’Inghilterra della Brexit e la Francia gollista si sono coordinate sul nucleare. Io penso che coordineranno anche il voto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Comunque finisca la guerra, dovrà esserci più unità in Europa».
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