Professor Giovanni Orsina, direttore del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Luiss, in Europa accade spesso che i partiti di estrema destra vincano le elezioni ma finiscano per non far parte del governo. L’ultimo esempio potrebbe essere quello austriaco dell’FPÖ, come finirà secondo lei?
«È uno schema che ormai si sta ripetendo con una certa costanza, con un grosso pezzo di elettorato, peraltro crescente, che va in quella direzione per ragioni sulle quali si è scritto moltissimo, ma che non sono ancora del tutto chiare. Per il momento però resta una minoranza e quindi, nei Paesi in cui c’è la possibilità di costruire maggioranze alternative, continua a rimanere dietro il Brandmauer, come i tedeschi chiamano il muro tagliafuoco».
Questo crea un problema solo politico oppure può arrivare a configurarne uno democratico?
«Il problema democratico secondo me oggi è solo relativo. Alla fine, le democrazie funzionano sulla base del principio di maggioranza e non sta scritto che da nessuna parte che una somma di partiti valga meno di un partito unico. Per intenderci, all’interno di un voto legittimo, siamo comunque 30 contro 70. In Europa popolari, socialisti e liberali fanno una maggioranza. Ed è democraticamente legittimo anche che questi non vogliano allearsi con partiti distanti da loro. Le conventiones ad excludendum non sono anti-democratiche, al limite c’è un problema di “rischio”».
Parla di una sorta di una roulette russa? È meglio tenere fuori l’estremismo con i cordoni sanitari o portarlo dentro per istituzionalizzarlo.
«Esatto. Il punto è che, per tenere fuori questi, devi per forza di cose ricorrere a una grande ammucchiata, come la Francia insegna. Questa però è inevitabilmente poco efficiente, oltre a dare l’idea di essere solo un assetto difensivo. Vuol dire che col tempo un’altra parte degli elettori potrebbe cominciare a interrogarsi sul perché l’obiettivo di una coalizione debba essere solo quello di tenere fuori qualcuno. Insomma, a chiedersi se per caso non abbiano ragione gli esclusi. I partiti mainstream, in un’alleanza “negativa”, mano a mano perdono di efficacia e rendono più evidente di essere all’ultima spiaggia».
L’alternativa è la normalizzazione.
«L’alternativa è quella di dire: avete vinto, avete il 30%, ora governate. Tanto la maggioranza non ce l’hanno e sarebbero sotto controllo attraverso i partner. Che poi era anche una parte della scommessa di Emmanuel Macron quando ha convocato le elezioni: se Le Pen alla fine vince la mandiamo al governo, tanto in Francia conta il Presidente. Poi abbiamo il caso italiano che lo dimostra chiaramente: governarne ti modera, necessariamente. Ma anche questo è un gioco che ha un tasso di pericolosità molto alto. Per di più, continua a portare alla domanda cruciale».
Cioè? Tornando all’Austria, perché il 30% vota per quel partito?
«Proprio così. Questi austriaci vengono chiamati con grossa approssimazione neonazisti, che è una parola troppo forte, ma ammettiamo pure che lo siano, vuol dire che un terzo dell’elettorato vota per dei neonazisti. A maggior ragione il problema è in primis cosa c’è dietro e, in secondo luogo, come lo si possa affrontare».
E come si fa?
«Non è semplice, ci sono grandi differenze tra un Paese e l’altro. Eppure, sempre partendo dall’Austria, qualche elemento ricorrente si trova. A Vienna i socialdemocratici hanno ottenuto circa 10 punti in più del FPÖ, riproponendo una grande frattura che abbiamo già visto con Trump, con la Brexit, con Le Pen o con Meloni e Salvini. Ovunque c’è un distacco tra grandi città e centri medio-piccoli. Tra i ceti cognitivi, ossia i lavoratori della mente, che abitano nelle metropoli, e i lavoratori di cura o manuali, del cuore o del braccio, che vivono nelle cittadine e nei borghi. E si badi che non è questione di reddito. Quelli che votano per i partiti di protesta non sono necessariamente i perdenti della globalizzazione. È gente che non si sente riconosciuta».
Siamo di nuovo al città contro periferie.
«I partiti mainstream – i cui leader sono spesso tutti laureati, perché la frattura è pure educativa – non riescono a parlare con un mondo così diverso dal loro. Un mondo che non è necessariamente fatto di neonazisti, di matti o di gente che vuole la luna. Parliamo di una fetta di popolazione che vuole essere ascoltata. È per questo forse che Meloni non perde voti nonostante due anni di governo tutt’altro che rivoluzionari: perché i suoi elettori non volevano una rivoluzione, volevano sentirsi rappresentati».
Che impatto avrà sul medio o lungo periodo?
«Se ho capito qualcosa, la rivolta è strutturale e sul medio lungo-periodo, elevando i muri tagliafuoco, si guadagna solo tempo. La sfida è integrare questo tipo di partiti riportando sotto controllo le loro più evidenti pulsioni anti-liberali e anti-democratiche. Tuttavia è un lavoro per niente semplice che spetta soprattutto alla destra moderata. Un po’ come il Ppe ha già dimostrato di sapere fare con i Conservatori».
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