La difesa di Apple prova a buttarla in politica. Lo fa sapendo probabilmente di pigiare un tasto sensibile anche nella campagna elettorale statunitense. La controversia europea che la costringerà a versare 10 miliardi di euro di imposte, dice Cupertino in un comunicato, non riguarda la quantità di tasse che paghiamo, ma il governo al quale siamo tenuti a pagarle. Apple, sostiene nella sua difesa, ha versato agli Stati Uniti 20 miliardi di euro di tasse. Dentro questa somma sono compresi anche i 10 miliardi che l’Europa vuole che siano invece pagati in Irlanda.Il messaggio è: bussate a Washington. Più facile a dirsi che a farsi. Sono ormai tre anni che il G20 e il G7 provano a trovare un compromesso per attuare l’intesa raggiunta in sede Ocse per la tassazione delle multinazionali del web. Un’intesa basata su due pilastri: una “condivisione” tra gli Stati delle tasse sui profitti delle Big Tech, e una tassa minima del 15 per cento. Questo secondo pilastro è stato già attuato e recepito anche in Italia. Sul primo, più delicato, c’è uno stallo.
LO STALLO
Vediamo perché. Lo scopo del primo pilastro è garantire una più equa distribuzione dei profitti e dei diritti di tassazione fra i Paesi in cui operano le grandi imprese multinazionali, incluse le aziende digitali, ripartendo il diritto di tassazione tra i Paesi in cui esse svolgono attività commerciali e realizzano profitti, indipendentemente dal fatto che vi abbiano o meno una presenza fisica. Il nuovo regime si dovrebbe applicare alle grandi imprese multinazionali aventi un fatturato globale superiore a 20 miliardi di euro e una redditività superiore al 10%. In pratica, il 25% dei profitti oltre il margine del 10% dovrebbero essere redistribuiti ai Paesi dove le grandi multinazionali vendono i loro prodotti e forniscono i loro servizi, indipendentemente dalla presenza fisica nel territorio.
Insomma, se Apple, Google, Amazon, vendono i loro prodotti e servizi in Italia, Francia o Germania, gli Stati Uniti, dove le multinazionali hanno sede, dovrebbero “retrocedere” a Roma, Parigi e Berlino una parte della tassazione. All’ultimo G7 di Stresa e al G20 in Brasile, su questo punto non si è riusciti a trovare un accordo per la frenata degli Stati Uniti. Ma anche altri grandi Paesi come la Cina, l’India e l’Australia, si sono messi di traverso per congelare il primo pilastro della Global tax sulle multinazionali.
L’accordo avrebbe bisogno dell’approvazione da parte dei Parlamenti di almeno 30 Paesi che ospitano le sedi centrali di almeno il 60 per cento delle circa 100 aziende interessate, un requisito che non può essere soddisfatto senza la partecipazione degli Stati Uniti. Sulla questione pesa anche la corsa alla Casa Bianca. I Repubblicani sono contrari a questo meccanismo di redistribuzione dei profitti delle loro aziende tecnologiche di punta. Donald Trump, quando era presidente, minacciò di imporre dazi fino al 100 per cento a quelle Nazioni che avessero introdotto delle “web tax” sulle multinazionali americane. Molti lo hanno fatto lo stesso, tra questi anche l’Italia che ha introdotto una web tax del 3 per cento sui ricavi generati nel Paese. Per evitare che si scatenasse una guerra fiscale globale, era stata decisa una moratoria a nuove web tax fino al 30 giugno di quest’anno, con l’impegno che una volta entrato in vigore il primo pilastro della tassa globale, tutte le vecchie web tax sarebbero state archiviate. La scadenza è passata invano. Sottotraccia le trattative continuano, ma non sembra prevalere l’ottimismo. Secondo più di un osservatore, il primo pilastro della Global tax sarebbe su un binario morto.
LE SOLUZIONI
A questo punto le uniche soluzioni tornano ad essere le web tax nazionali e le contestazioni fiscali da parte dell’Europa e delle Agenzie nazionali. Il Fisco italiano ha contestato a diverse multinazionali del web una stabile organizzazione occulta nel Paese chiedendo versamenti miliardari. Ma si tratta di una strada lunga e accidentata per ottenere il dovuto. L’altra via è rimettere mano alla web tax, formalmente scaduta il 30 giugno scorso. Tuttavia, come detto, il tema è estremamente delicato e potrà essere affrontato probabilmente, solo in accordo con gli altri partner e soltanto dopo le elezioni americane, per provare ad evitare guerre fiscali e commerciali con il principale partner e alleato occidentale.
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