Astensione e “no” a parte, che la conferma di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea non sarà alla fine deleteria per l’Italia è una delle convinzioni più solide di Giorgia Meloni. Non tanto per il rapporto personale instauratosi tra le due su cui pure si è scritto molto, ma soprattutto perché — questa è la riflessione affidata nei giorni scorsi ai suoi — la premier è sinceramente convinta che l’Europarlamento ora «si sposterà a destra». Incamerata la nuova fiducia, si confida cioè che von der Leyen riprenda quel cammino incominciato a metà dello scorso mandato, quando si è pian piano allontanata dalle posizioni imposte dai Socialisti o da Franz Timmermans. A differenza delle dinamiche romane infatti, gli ingranaggi di Strasburgo sono progettati per costruire maggioranze alternative sui singoli dossier. Ed è lì, come si affannano a ripetere da mesi gli emissari meloniani in Europa, che Fratelli d’Italia punta a fare la differenza.
Affinché ciò accada non servono però né strappi da parte italiana (da qui i messaggi concilianti inviati dalla premier e i diktat ai suoi di non eccedere nelle critiche a Ursula) né mosse considerate azzardate da parte di von der Leyen. Ad esempio, come ha ben manifestato il vicepremier Antonio Tajani ieri, appurato che a Roma non spetterà una vicepresidenza esecutiva, ci si augura che questa carica non venga affatto istituita. «È la scelta più giusta per evitare di avere tanti capetti che cercano di governare interessi loro imponendoli agli altri» ha scandito il leader di FI ed “ufficiale di collegamento” tra Meloni e il Partito popolare europeo di cui è esponente Ursula. Dichiarazioni non casuali che arrivano subito dopo un faccia a faccia tra la premier e l’azzurro, in cui si è fatto il punto su quanto avvenuto a Strasburgo, convenendo come il “no” di FdI non debba appunto intendersi come una rottura e su come ora debba essere prioritario evitare che i «capetti» Olaf Scholz ed Emmanuel Macron possano continuare nella sistematica opera di demolizione delle strategie meloniane.
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LE NOMINE
Specie perché sul tavolo c’è ora il piatto più ghiotto per i leader: la nomina dei commissari europei. A palazzo Chigi si oscilla tra la certezza di volere maggior spazio, con una casella che abbia poteri regolatori e un portafogli consistente (cioè Coesione o il Pnrr da soli non bastano), e la tentazione di cedere alle sirene identitarie, ripiegando su una poltrona che si potrebbe rivendicare come istituita ad hoc: il Mediterraneo. Anche qui però, le riflessioni riguardano i contenuti. Meloni ripete a tutti che non sa che farsene di nomi altisonanti, l’idea ora è recitare un ruolo di primo piano, a prescindere dal palco che ne ospita l’esibizione. Un portafogli gonfio come la Coesione è più importante di un pomposo Bilancio. Ma nessuno dei due da solo può essere considerato una casella adeguata, e per questo il primo vorrebbe affiancata una certa capacità d’azione sui nuovi strumenti finanziari. Anche perché con il nome del ministro Raffaele Fitto, Meloni sa di aver per le mani una carta vincente e capace di non temere le forche caudine delle audizioni parlamentari che si terranno a settembre (per metà agosto è invece attesa la lettera di Ursula con richiesta di due nomi per Paese, uno maschile e uno femminile). Ed è anche per questo che guarda con sospetto ad un’eventuale delega al Mediterraneo. L’abito calzerebbe a pennello all’Italia e aiuterebbe il Piano Mattei, ma la premier — al di là delle indiscrezioni su Elisabetta Belloni o sull’ex ministro Roberto Cingolani — non ha individuato un profilo di cui si fidi ciecamente come nel caso di Fitto. Un identikit che possa tenere le redini di un dicastero che, qualora Ursula riempia di significato quella che oggi è una casella «che potrebbe andare bene alla Grecia», potenzialmente si potrebbe occupare non solo di sicurezza in Medio Oriente o di immigrazione dal Nord Africa, ma pure di investimenti energetici e partenariati strategici nell’area.
IL FRONTE INTERNO
Sul fronte interno intanto c’è qualche malumore per la partita giocata da Salvini. Dopo settimane passate a provare di schiacciare da destra i meloniani, il niet di FdI a Ursula ha depotenziato mediaticamente il gruppo dei Patrioti per l’Europa in cui il leader leghista è confluito assieme a Marine Le Pen e Viktor Orbán. Questo — valutano a via della Scrofa — lo costringe a cercare nuovi terreni di scontro. E con quel «serve rispetto per l’Italia» scandito ieri, pare averlo individuato. Qualunque piccola incertezza nella nomina del Commissario italiano, rappresenta una fessura in cui intrufolarsi per aprire una crepa per giocare al rialzo. Specie se Fitto dovesse infine traslocare a Bruxelles lasciando a Roma una poltrona ambitissima.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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