La mano di bianco con cui Giorgia Meloni ha voluto fosse ritinteggiato il suo ufficio a palazzo Chigi non appena ne ha preso possesso a ottobre 2022, è una buona metafora per comprendere cosa la presidente del Consiglio sta provando a fare sul fronte istituzionale. «Rinnovare il Paese» è del resto una delle promesse scandite più volte, anche con la consapevolezza che quell’imbiancatura rischia di trasformarsi in un boomerang. «Noi andremo avanti con le riforme, gli italiani poi decideranno da che parte stare» è non a caso un altro dei motti meloniani, riferito prima che alla riforma del fisco a quelle del premierato, dell’autonomia differenziata e della giustizia.
I PUNTELLI
Queste tre infatti, sono puntelli fondamentali della maggioranza e — al di là di approvazioni, passi in avanti e referendum più o meno pendenti — sono ancora da portare a casa. Per quanto riguarda la giustizia, se la separazione delle carriere tra magistrati e pm è tutta da concretizzare, tra le misure già adottate figura l’abolizione dell’abuso d’ufficio, realizzata con la cosiddetta legge Nordio. In fase avanzata c’è pure una regolamentazione più rigida delle intercettazioni, con l’obiettivo di limitare gli abusi e garantire un maggiore equilibrio tra sicurezza e tutela della privacy.
L’autonomia differenziata invece è già stata approvata e consente alle regioni di ottenere competenze su 23 materie, tra cui sanità e istruzione, in accordo con lo Stato. La riforma mira a decentralizzare alcune funzioni dello Stato, rispondendo alle esigenze di maggiore autonomia da parte delle regioni più sviluppate, ma è fortemente contestata dagli enti locali meridionali, tant’è che il prossimo 12 novembre la Corte costituzionale dovrà esprimersi sui ricorsi delle singole Regioni.
In ultimo, quello che è forse l’obiettivo più ambizioso del governo Meloni: la riforma costituzionale per introdurre il premierato, ovvero l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Nato per rafforzare la stabilità governativa, il progetto è per Meloni «la madre di tutte le riforme». Oggi però, a tre anni dalla fine della legislatura e con solo un primo passaggio parlamentare, rischia ancora di essere il padre di tutti i rimpianti dell’esecutivo.
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