Lo scorso maggio Snam ha assegnato alla Corinth Pipeworks una serie di contratti per la fornitura di oltre 180 chilometri di condotte per la futura Linea Adriatica. Cioè il gasdotto che aumenterà di 10 miliardi di metri cubi all’anno la capacità di trasporto tra Sud e Nord nella parte est del Belpaese. Molto probabilmente, se la produzione dell’ex Ilva di Taranto non fosse stata ridotta ai minimi (circa 2 milioni di tonnellate), l’acciaio per queste lunghissime tubature sarebbe stato prodotto in Italia.
LE SCELTE
Dietro la scelta di salvare e rilanciare con la decarbonizzazione l’impianto di Taranto ci sono diverse ragioni. C’è la necessità di garantire un lavoro alle 20mila persone, tra addetti diretti e indiretti, che legano la loro esistenza al sito jonico. Non è secondario è ricordare che quando l’acciaieria sfornava otto milioni di tonnellate di materiali all’anno, garantiva un 3 per cento del Pil nazionale. Ma c’è un altro aspetto, industriale: attualmente lo stabilimento è l’unico nel Paese, e tra i pochi in Europa, che realizza un acciaio primario (cioè prodotto direttamente dalla materia prima, il ferro, e non da rottami, quindi con meno impurità) molto versatile e capace di rispondere alle esigenze delle principali manifatture del mondo. Un livello di qualità che in pochi offrono.
Proprio in questa direzione Cassa depositi e prestiti, in suo report , ha spiegato che «senza una siderurgia forte e competitiva non è possibile alcun tipo di sviluppo industriale. Non a caso, l’Italia è la seconda manifattura europea e la seconda in Europa per consumi e produzione di acciaio».
Di conseguenza, garantire un futuro all’ex Ilva, al suo output, diventa una questione di sovranità economica per il made in Italy, non meno secondaria di quella legata all’approvvigionamento energetico. Se gas ed elettricità muovono i nostri macchinari, senza quest’acciaio sarà più complicato continuare a realizzare auto, elettrodomestici, pipeline, strumenti per la difesa, le arcate dei ponti, parti degli scafi o alcuni pezzi delle fusoliere degli aerei. Il tutto mentre con la Cina che inonda l’occidente di beni e gli Usa che con i dazi — sull’acciaio una tariffa del 50 per cento — sta ridisegnando le direttrici del commercio mondiale.
Dalle acciaierie di Taranto — con gli altoforni a ciclo introdotto oggi per quanto in crisi e domani con i forni elettrici “alimentati” con il preridotto di ferro — esce e uscirà il cosiddetto laminato piano, che — come ricorda Cdp nel suo report — è «fondamentale per la fabbricazione di componenti chiave in settori come la meccanica, i mezzi di trasporto e gli elettrodomestici». Questo perché è un “foglio” di acciaio che ha un’altissima capacità di “stampaggio”, di adattarsi alle richieste delle industrie manifatturiere per modellare i loro prodotti in base alle esigenze di mercato. Pensiamo solo alle scocche delle auto sempre più affusolate e aerodinamiche per sfruttare al meglio il vento. E questo laminato — nonostante i bassi volumi realizzati oggi a Taranto — completa una produzione italiana che — in Val d’Aosta, in Lombardia, in Toscana, in Umbria, in Veneto come in Friuli-Venezia Giulia — è all’avanguardia con i suoi acciai speciali utilizzati per le turbine per le centrali termoelettriche e idroelettriche, le trivelle petrolifere, le fusolierie fino ai bisturi per la chirurgia.
I NUMERI
Nel 2024 in Italia la produzione di acciaio ha sfiorato le 20 milioni di tonnellate. Parallelamente ne sono state importate quasi 18 milioni. Nonostante non è ancora chiaro chi se la comprerà, la scommessa della futura Ilva è coprire questo gap, già riportando la produzione da altoforno a 6 milioni entro il 2026, per poi riconvertirla in chiave green. Anche sfruttando i dazi di Trump e il Cbam, il meccanismo sulle emissioni dei beni extra Ue, che con le sue tasse ridurrà la convenienza dell’acciaio cinese.
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