È da tempo che Venkatraman Ramakrishnan — per tutti “Venki” — «bussa alle porte del paradiso», come cantava Bob Dylan, per capire i limiti ultimi dell’esistenza umana. Questo biologo indiano (ma anche britannico e americano) 73enne, vincitore del Nobel per la chimica nel 2009, assieme a Thomas Arthur Steitz e Ada Yonath per i suoi studi sulla struttura e sulla funzione dei ribosomi, è uno dei massimi esperti mondiali di longevità cellulare. Ricercatore a Cambridge presso il laboratorio di biologia molecolare del Medical Research Council, è stato presidente della Royal Society. Insignito sabato scorso a Lignano Sabbiadoro del Premio Hemingway “Avventura del pensiero” 2025, ci parla del suo ultimo saggio, Perché moriamo — La nuova scienza dell’invecchiamento e la ricerca dell’immortalità (Adelphi). La voce serena e il sorriso gentile comunicano una grande serenità interiore.
Partiamo dal titolo del libro. Perché moriamo?
«Perché, banalmente, vivendo invecchiamo. E l’invecchiamento è un accumulo di cambiamenti e difetti nel nostro corpo: quando questo raggiunge uno stadio in cui qualche organo essenziale — come il cuore, il cervello o i reni — smette di funzionare, allora non siamo più in grado di esistere come esseri umani completi, e a quel punto moriamo».
Lei scrive che siamo gli unici animali consapevoli di dover morire. È per questo che cerchiamo in ogni modo di evitarlo?
«Ci sono prove che gli animali possono capire quando un membro della loro specie o del loro branco è morto. Ma la nostra potrebbe essere l’unica specie consapevole che la nostra vita ha una durata limitata. La maggior parte delle religioni cerca di spiegare la morte come una transizione verso qualcos’altro: o si va in paradiso o ci si reincarna. Perché la prospettiva di morire, e basta, è molto difficile da accettare».
Lei cita il caso di Jeanne Calment, la donna più longeva della storia, arrivata a vivere 122 anni. E scrive anche che questo limite è difficile da superare. Perché?
«Penso che ogni specie si sia evoluta per avere una vita di una certa durata. Questo perché all’evoluzione non importa quanto a lungo vivi. Si preoccupa solo della tua capacità di riprodurti. Non ha senso, per esempio, che un topo viva 50 o 80 anni, perché verrà ucciso molto prima. L’evoluzione ha quindi selezionato una specie che impiegherà rapidamente tutte le sue risorse nella crescita e nella riproduzione, per poter trasmettere i suoi geni prima di essere ucciso o morire. Nel caso di animali più grandi, l’equazione è differente. E negli esseri umani, quell’equazione è elaborata in modo che viviamo, al massimo e molto raramente, circa 110 anni».
L’immortalità è un obiettivo possibile?
«Malattie, catastrofi, guerre, carestie… ci sono molte cose di cui potremmo morire che non hanno nulla a che fare con l’invecchiamento. Quindi, non credo che la vera immortalità sia un obiettivo realistico. Non sarebbe neanche un bene per la società: se li immagina Putin e Trump tra cinquant’anni? Ma potremmo iniziare a vivere tutti, in media, molto più a lungo».
Cosa possiamo fare, nella nostra vita di tutti i giorni, per arrivare a questo obiettivo?
«Ci sono tre cose che sono molto importanti per la biologia dell’invecchiamento: dieta, esercizio fisico e sonno. Se n’è parlato a lungo, e ora capiamo anche perché funzionano davvero e perché rallentano i processi di invecchiamento. Ma oltre a questo punto fermo, ci sono alcune osservazioni interessanti. Una è che le persone che non sono socialmente isolate, ma hanno una cerchia di amici e familiari, tendono a vivere più a lungo. Così come le persone che sentono di avere uno scopo nella vita. Alcuni aspetti dell’invecchiamento sono socio-psicologici, e in qualche modo influenzano la nostra fisiologia».
Si vedono pubblicità su integratori di qualsiasi tipo. Funzionano davvero?
«Penso che non sia una sciocchezza totale. Ma il problema è che non sono mai stati condotti studi clinici accurati. Certo, se hai una carenza importante, come l’anemia, allora sì, hai bisogno di integratori. Ma cosa succede alle persone sane? Non sono mai state condotte ricerche adeguate per molti di questi integratori».
Nel suo libro cita alcuni farmaci che potrebbero effettivamente prolungare la vita. Come la metformina, che viene prescritta ai diabetici.
«Gli studi sulla metformina sono piuttosto contrastanti al momento. Le prove sulla rapamicina sono, invece, un po’ più stringenti. Ma quest’ultima ha anche effetti collaterali. È un immunosoppressore, e rende più inclini alle infezioni. Quindi la domanda è: si può in qualche modo modificare la rapamicina o aggiustarne il dosaggio, in modo da ottenere i benefici senza i rischi?».
A quali studi sta lavorando ora? Continuerà a fare ricerca?
«Lavoro ancora sul ribosoma (piccole particelle presenti in tutte le cellule, ndr), che è coinvolto nella sintesi proteica. Si cerca di capire come i ribosomi “controllino la qualità”. Ad esempio, come fanno a disattivare la sintesi proteica durante lo stress? Come fanno i virus a indurre i ribosomi a produrre i propri geni invece di quelli della cellula ospite umana? Ci sono alcuni temi su cui sto lavorando, ma devo sottolineare che smetterò di fare ricerca alla fine di quest’anno e che chiuderò il mio laboratorio».
Perché?
«Penso che sia giusto che gli scienziati più anziani vadano in pensione e facciano spazio alle nuove generazioni, perché tutti i dati dimostrano che siamo al massimo della creatività quando siamo giovani. È importante che le persone anziane, che hanno molta influenza e potere, non superino il periodo ottimale».
C’è il rischio di un gap sociale, tra chi può investire molto sulla propria salute e quindi vivere più a lungo e chi ha meno disponibilità di denaro per curarsi?
«Esiste già una disparità economica nella longevità. E la mia preoccupazione è che, se si verificano progressi in questo campo, saranno principalmente le persone benestanti a trarne vantaggio per prime. E quindi si potrebbe effettivamente finire per aumentare le disparità all’interno delle società, ma anche tra le società e i paesi».
E cosa pensa di quelle persone molto facoltose che decidono di farsi ibernare, per poter tornare in vita in un ipotetico futuro? Negli Usa è un business.
«Non ci sono prove che la criogenia funzioni. E infatti, i contratti delle aziende che la promuovono sono formulati con molta attenzione. Non promettono di riportarti in vita perché sanno che, allo stato attuale, non esiste una procedura del genere. Quindi, ti fanno pagare solo per prendere il tuo corpo e congelarti in azoto liquido. Ma a quel punto, sei già morto e non ci sono prove che tu possa essere riportato in vita. Certo, puoi ibernare qualsiasi forma di vita. Puoi congelare singole cellule. Puoi persino congelare gli embrioni. Ma più è grande il soggetto da ibernare, più è difficile farlo. Non sono nemmeno riusciti a congelare un topo — che è molto più piccolo di un essere umano — e a riportarlo in vita. Quando ci riusciranno, comincerò a guardare con attenzione a queste pratiche».
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