18.05.2025
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Politics

«La mia partita sono i dazi»


TIRANA Giornata nera, come il cielo sopra Tirana. La pioggia batte incessante tutto il dì, il presidente albanese Edi Rama riceve i leader — ben 47 per il vertice della comunità politica europea — in vestito blu e sneakers, sotto un grande ombrello che fa pendant con l’abito scuro. Quando arriva Giorgia Meloni abbandona l’ombrello a terra e si mette platealmente in ginocchio, unisce le mani a mo’ di preghiera. «Edi, no, dai — ride la premier — devi farlo solo quando siamo soli». A nessuno il “gigante” albanese riserva la stessa accoglienza, nemmeno a Volodymyr Zelensky, che arriva in abiti scuri e umore a riporto poco dopo, le “ossa rotte” dai negoziati in Turchia. A rovinare l’apparente buonumore della premier ci pensano, un paio d’ore dopo, Emmanuel Macron e gli altri volenterosi, passando ancora una volta da Kiev.

La contro-foto

Quando entra nel foyer, abbracci e calorose pacche sulle spalle per Zelensky. Una foto lo ritrae mentre chiacchiera con Meloni, Ursula von der Leyen, Keir Starmer e Donald Tusk. Lo scatto rimbalza sui canali di Palazzo Chigi, qualcuno malizia che sia un modo per riprendersi la scena, dopo l’istantanea mancata tra le navate di San Pietro e l’assenza sul treno per Kiev. Poco dopo al summit arriva Macron, tra i due il gelo salta agli occhi. Inizia la prima sessione di lavoro, la premier siede tra il neo Cancelliere Friederich Merz e Ursula von der Leyen. Quando prende la parola, si sofferma anche sul sostegno a Kiev. «Continueremo a stare al fianco dell’Ucraina — dice — e a lottare affinché questa guerra finisca immediatamente, perché la nostra sicurezza e la nostra libertà dipendono dal ripristino della forza del diritto sul diritto del più forte. E a proposito di Europa e libertà, credo che non ci sia nulla di più europeo di un popolo disposto a rischiare tutto per difendere la propria libertà e indipendenza. Ogni giorno l’eroismo e la tenacia del popolo ucraino ci ricordano cosa è l’Europa e qual è l’aspetto più profondo della nostra identità comune: la libertà». Poi l’affondo su Vladimir Putin: ad Istanbul «il mondo ha visto chi era davvero disposto a sedersi al tavolo dei negoziati e chi no». Quando la sessione finisce, i leader abbandonando la stanza alla spicciolata. Ma nella grande sala restano i quattro “capitani” del fronte dei volenterosi: Macron, Starmer, Merz, Tusk. Più Zelensky. Fanno il punto, drammatico, sui negoziati in Turchia e poi decidono di chiamare Trump. Obiettivo rinsaldare l’asse con gli Usa.

Il remake

Sembra il remake della scena di una settimana fa a Kiev, con Meloni di nuovo fuori dalla stanza dei bottoni. A Roma apriti cielo. Da Giuseppe Conte a Matteo Renzi, passando ad Angelo Bonelli e Carlo Calenda, le opposizioni attaccano a muso duro. La presidente del Consiglio mastica amaro, lei che punta ad essere il ponte con Washington. A chi, da Roma, le scrive via Whatsapp puntando il dito contro il presidente francese e gli altri — rei di averla esclusa — risponde che «la sua vera partita è sui dazi». E potrebbe tornare a giocarla già domenica, quando a Roma arriverà il vicepresidente J.D. Vance.

La dichiarazione

Meloni affronta la tavola rotonda sui migranti, poi il bilaterale con l’amico Rama. Quindi fa il punto con lo staff per decidere il da farsi. Concede una battuta ai giornalisti: niente domande, solo una dichiarazione per spiegare quanto accaduto. «L’Italia ha da tempo dichiarato di non essere disponibile a mandare truppe in Ucraina — dice visibilmente indispettita — Non avrebbe senso per noi partecipare a dei formati che hanno degli obiettivi sui quali non abbiamo dichiarato la nostra disponibilità». Una versione, la sua, che Macron poco dopo stronca platealmente: «La discussione è sul cessate il fuoco, guardiamoci dal divulgare false informazioni, ce ne sono a sufficienza di quelle russe».

Ad aver messo la premier in “panchina”, di fatto negandole l’invito alla riunione di emergenza, secondo fonti diplomatiche ha contribuito il pessimo rapporto con Parigi, una serie di inciampi tra cui la difesa delle parole di Vance all’Eliseo, ma anche l’incontro dei giorni scorsi a Roma con il rumeno Simion, in diverse cancellerie visto come fumo negli occhi. Fatto sta che a Tirana la diplomazia italiana non avrebbe mancato di far arrivare il suo disappunto ai volenterosi per il trattamento riservato alla premier italiana. «E’ vero che sull’Ucraina sono loro a investire di più — viene spiegato da fonti vicine alla premier — soprattutto sulle armi: miliardi di dollari contro centinaia di milioni da parte nostra, ogni volta conditi dalle polemiche interne». Ma ciò non toglie «che ci si aspettava ben altro trattamento». Da Meloni ai leader, invece, nessun commento, nemmeno una parola sull’accaduto. Ma chissà che domani, a Palazzo Chigi, “l’incidente” non diventi argomento di discussione con Merz: il cancelliere tedesco è atteso alle 18 per un bilaterale. Dove centrale sarà il dossier dazi, tema sensibilissimo per Berlino come per Roma, che vantano il maggior export verso gli States in Europa. «La vera partita per Meloni è quella…», si dice convinto chi le è più vicino. E lì che la premier punterà tutte le sue fiches. Anche cercando di mettere uno di fronte all’altro il numero due della Casa Bianca e Ursula von der Leyen, entrambi a Roma domenica per la cerimonia di inizio pontificato di Prevost. A maggior ragione chi la conosce è pronto a scommettere che, dopo ieri a Tirana, «ce la metterà davvero tutta».

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