«Agosto è sempre un mese volatile. I volumi sono bassi, e le notizie hanno un impatto amplificato. Il rallentamento dei dati USA visto in luglio ha coinciso con un rialzo dei tassi, a sorpresa, da parte della Bank of Japan. Il risultato è stato quello di forti vendite sui listini azionari, per anni acquistati da investitori asiatici in cerca di rendimento. L’aggiustamento ha riverberato in ogni mercato, dalle borse europee, in discesa, alle curve dei rendimenti, che ora scontano forti tagli. Il movimento di lunedì è il più violento da marzo 2020, ma gli aggiustamenti in atto seguono anni di acquisti e probabilmente renderanno il resto dell’estate volatile». E’ un ingegnere meccanico, Sebastiano Pirro, 40 anni appena fatti, chief investment officer di Algebris, la società del risparmio britannica fondata da Davide Serra. La sua analisi sul lunedì nero che ha affossato i listini internazionali, è molto oculata e diretta, senza fare il pessimista: del resto da ex sciatore alpino a livello professionale, cimentatosi nello slalom gigante e le gare di Coppa Europa, dimostra, in questa intervista al Messaggero, dimestichezza ad affrontare i sentieri (dei mercati) più ripidi.
Gli investitori internazionali sono troppo esposti al rischio e hanno ingranato la retromarcia?
«L’accumulo di rischi nella prima parte dell’anno è stato importante, soprattutto su alcuni mercati, come l’equity e il credito. Il cambiamento della percezione sulla crescita è una novità, e porterà un ribilanciamento dei portafogli. C’è quindi spazio per ulteriori vendite. Poi, come spesso accade nei mercati volatili, si passerà da una fase iniziale di vendita indiscriminata a una in cui le valutazioni faranno la differenza. Non tutti gli indici sono uguali e le valutazioni sull’equity americano sono per esempio molto più care che su quello europeo».
I timori che hanno affossato Tokyo, Seul e molti listini europei compreso Milano sono adesso principalmente legati al deflagrare della guerra in Medio Oriente. È davvero così?
«La guerra ha senz’altro giocato un ruolo, ma noi leggiamo l’indebolimento del mercato più come una revisione delle attese sulla crescita. La disoccupazione americana è tornata al 4.3%, il livello più alto dalla fine del 2021. La creazione di posti di lavoro in USA ha subito un brusco rallentamento, così come i dati sugli ordini industriali e le esportazioni. Nelle ultime sessioni il petrolio è sceso, puntando il dito verso timori sull’economia più che geopolitici».
Se ci fosse l’escalation Iran-Israele, cosa potrebbe accadere?
«Un’escalation che porti a una vera e propria guerra sembra improbabile, ma i rischi sono decisamente in aumento. Nel contesto di mercato odierno, un’altra guerra in Medio Oriente avrebbe lo stesso effetto sui mercati della benzina sul fuoco. I timori sulla crescita aumenterebbero, e il mercato richiederebbe reazioni ancora più forti e rapide alle banche centrali. Vedremmo dunque un indebolimento nell’equity e nel credito, e un rafforzamento nei titoli di stato. Le commodity, invece, comincerebbero a salire».
Perché in Italia le vendite colpiscono soprattutto le banche: perché hanno in pancia titoli di stato o anche altro?
«Le banche sono sempre il bilancio del sentimento sui mercati europei. Nel 2024, poi, la performance da inizio anno è stata buona; quindi, l’aggiustamento recente ha provocato uno storno nel settore. Questa volta, però, l’impatto sulle banche è un derivato, e non alla fonte, del problema. I bilanci delle banche europee rimangono molto solidi e il contesto di tassi elevati ha aumentato notevolmente la profittabilità. In questo caso le vendite derivano da riduzioni di rischio sul mercato e non da timori sui fondamentali».
Pensa che da oltre oceano possa spirare il vento della recessione che travolgerà le economie europee?
«I dati di luglio suggeriscono che gli Stati Uniti sanno rallentando, ma la parola recessione è ancora eccessiva in questo contesto. Il rallentamento del mercato del lavoro è coerente con una crescita dell’1-1.5% a 12 mesi, sotto il trend ma non disastrosa. Il mercato spesso passa da un eccesso all’altro, ed è possibile che l’equity anticipi un peggioramento non del tutto riflesso nei dati macro, ma parlare di recessione è prematuro».
La Fed sta sbagliando a non tagliare i tassi, al netto dell’escalation della guerra?
«Nel meeting di luglio, la Fed ha fatto capire chiaramente che il mercato si deve attendere un taglio a settembre. Il problema è stato il movimento di mercato, e i dati in peggioramento, dei giorni successivi. Adesso i mercati si aspettano due tagli di 0.5% l’uno a settembre e novembre, troppo per un’economia in rallentamento ma sana. Riteniamo più ragionevole tre tagli da 0.25% l’uno di qui a fine anno».
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