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la frenata in Borsa e il nodo dello sfruttamento


La catena di abbigliamento giapponese Uniqlo finisce nella rete del boicottaggio da parte della clientela cinese. L’accusa che gira sui social network, soprattutto sulla piattaforma Weibo, è di aver aderito alla campagna occidentale di opposizione allo sfruttamento della minoranza uigura e dei musulmani Hui nella regione cinese dello Xinjiang, attraverso le limitazioni all’uso delle materie prime del territorio.

È bastata una risposta ambigua di Tadashi Yanai, direttore generale della società che gestisce Uniqlo, Fast Retailing, a scatenare l’ira dei consumatori cinesi sui social. Dopo esser rimasto in silenzio per anni, Yanai ha rivelato alla Bbc che Uniqlo “non utilizza” cotone proveniente dallo Xinjiang. «Menzionando quale cotone stiamo utilizzando… in realtà, diventerebbe troppo politico se aggiungessi altro, quindi fermiamoci qui», ha detto il manager nel corso dell’intervista.

 

Il boicottaggio sui social network cinesi

La macchina del fango, partita dalla piattaforma social cinese Weibo, ha travolto Uniqlo negli ultimi giorni. «Con questo tipo di atteggiamento da parte di Uniqlo, e con il suo fondatore così arrogante, probabilmente scommettono che i consumatori della Cina continentale se ne dimentichino in pochi giorni e continuino ad acquistare. Quindi, possiamo restare fermi questa volta?», ha scritto un utente di Weibo. «Sembra che in futuro dovrò smettere di acquistare prodotti Uniqlo», ha aggiunto un altro della community. Anche su X (ex Twitter) non sono mancate le critiche e i post di sostegno alla Repubblica Popolare Cinese, nei quali si evidenzia che «il cotone dello Xinjiang è il migliore al mondo” e si chiede supporto al “cotone dello Xinjiang». 
 

Mercato cinese a rischio

Una vera e propria catena di boicottaggio che rischia di avere effetti globali. Le azioni di Fast Retailing hanno, infatti, subito una brusca frenata sulla Borsa di Tokyo a inizio settimana, considerando che la Grande Cina, che include anche Taiwan e Hong Kong, rappresenta oltre il 20 per cento del fatturato dell’azienda giapponese di fast fashion. Nel 2024, i ricavi delle vendite cinesi hanno raggiunto i 677 miliardi di yen (il 21,8 per cento del totale) diventando il secondo mercato dopo quello interno giapponese. 

I marchi globali tra i fuochi delle grandi potenze

Finora Uniqlo era riuscito ad evitare le tensioni geopolitiche e a tenersi lontano dalle prese di posizione occidentali nei confronti di Pechino, vivendo la stessa paura degli altri brand giapponesi di trovarsi travolti da un rifiuto di massa da parte dei consumatori cinesi e di limitazioni nella commercializzazione dei loro prodotti. Tanto più che Uniqlo sta puntando tantissimo sulla Cina, nel tentativo di eclissare il successo di Inditex proprietario di Zara, e di H&M che in passato ha già sperimentato le reazioni negative dei clienti cinesi per aver rimosso dagli scaffali prodotti che utilizzavano cotone dello Xinjiang. La lista dei marchi di moda occidentali che hanno preso parte alla controversia e hanno eliminato dalla loro catena di approvvigionamento materiali oggetto di sfruttamento è lunga: da Burberry a Nike, da Tommy Hilfiger a Adidas. Una scelta non facile dato che il cotone dello Xinjiang è considerato uno dei migliori al mondo e, nel 2022, rappresentava circa l’87% della produzione cinese e il 23% dell’offerta globale tra il 2020 e il 2021. I consumatori cinesi si sono ribellati alla presa di posizione di Stati Uniti, Europa, Regno Unito e Canada attraverso campagne di boicottaggio sui loro social network e il marchio svedese H&M ha visto i propri capi ritirati dai principali negozi di e-commerce di Pechino. I marchi globali si trovano ora ad affrontare la rivalità tra grandi potenze come Stati Uniti e Cina e devono decidere la strategia migliore per non perdere grandi quote di mercato.

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