Pechino rimodula le direttrici del suo export. E in attesa di capire quale accordo uscirà dal bilaterale in corso a Londra tra Usa e Cina, si materializza lo spettro paventato negli ultimi mesi: il colosso asiatico sta gradualmente trasferendo altrove, per esempio sui mercati europei (+12 per cento a maggio), la sua sovrapproduzione. Cioè beni e materie prime che non riesce a piazzare in America per le barriere commerciali alzate da Washington. Uno scenario preoccupante per le aziende del Vecchio Continente che rischiano di ritrovarsi nel proprio mercato d’appartenenza una Cina ancora più agguerrita, forse anche disposta ad abbassare i prezzi.
IL TREND
Negli ultimi mesi, da parte europea, il trend nei rapporti commerciali sembra chiaro: aumentano, e non solo a maggio, le importazioni di metalli e prodotti siderurgici, alimentari e bevande, articoli in gomma e in plastica, materie prime in attesa di una rimodulazione delle licenze sulle terre rare, carta, macchinari elettrici e microchip, pannelli fotovoltaici fino ai veicoli di trasporto (ma non le auto perché nel Vecchio Continente la domanda è debole) così come la costruzione di navi e fregate.
Nel 2024 la Ue ha esportato in Cina beni per un valore pari a 213,2 miliardi di euro, parallelamente ha importato manufatti per circa 519 miliardi di euro. E difficilmente quest’anno cambieranno le grandezze in questa bilancia commerciale. Martedì scorso a Parigi il ministro del Commercio cinese Wang Wentao e il Commissario europeo per il Commercio Maros Sefcovic hanno discusso di come disinnescare la guerra commerciale su brandy e auto elettriche. Pechino vuole continuare a crescere nel mercato europeo, quello più remunerativo al mondo, tanto da proporre alla controparte anche la creazione di un “corridoio” per facilitare il trasferimento di terre rare e magneti.
Per comprendere quanto sta accadendo in queste ore — ma il quadro potrebbe cambiare dopo un esito positivo del tavolo di Londra — bisogna partire dagli ultimi dati diffusi dall’agenzia delle dogane cinese. L’export del Paese a maggio è cresciuto del 4,8 per cento su base annua, con un giro d’affari pari a 316,1 miliardi di dollari. I numeri sono sotto le stime degli analisti (che ipotizzavano un +5,6 per cento) e lontane dal +8,1 per cento tendenziale di aprile. Detto questo, l’ex Regno di Mezzo segna a maggio un surplus commerciale pari a 103,22 miliardi di dollari, in aumento sui 96,1 miliardi di aprile.
LE AREE
Entrando più nello specifico si scopre che il commercio verso gli Stati Uniti è crollato del 34,5 per cento su base annua, parallelamente è cresciuto in direzione del Giappone (+6,2 per cento), di Taiwan (+7,5 per cento), dell’Australia (+12,6 per cento), dell’area Asean (+14,8 per cento) e soprattutto dell’Unione europea (+12 per cento). A chiudere il cerchio, però, c’è un altro numero che preoccupa le economie mondiali: le importazioni continuano a calare, a maggio registrano un calo del 3,4 per cento contro il -0,2 registrato ad aprile. Soltanto l’America ha visto diminuire dello stesso mese le sue vendite del 18 per cento.
Meno debole di quanto pensavano gli stessi americani — che, non a caso, hanno cambiato registro sui dazi — la Cina sta pagando una serie di nodi strutturali che ne limitano la crescita. Secondo l’Ocse, il Pil del Paese salirà quest’anno del 4,7 per cento contro il +5 del 2024. Gli ultimi dati sull’export mostrano l’effetto delle restrizioni tariffarie volute da Trump, ma il colosso sconta soprattutto la debolezza della domanda interna. Che finisce per acuire un altro problema interno come quello della sovrapproduzione, registrata per esempio nel settore automobilistico, dove le autorità hanno stigmatizzato le politiche di sconti che vedono sfidarsi colossi come Byd e Great Wall Motors.
La sfiducia dei consumatori si traduce in deflazione: l’indice dei prezzi al consumo è sceso dello 0,1 per cento a maggio su base annua. Caleranno di più i prezzi dei beni e rallenteranno i volumi di acquisto da parte delle famiglie. Un fattore non certo benefico per il sistema cinese, che vede nell’indice dei prezzi alla produzione, sempre a maggio, una nuova riduzione del 3,3 per cento. Questo si traduce in una riduzione dei margini delle imprese. Le quali, in questo scenario e senza un accordo con gli Usa sui dazi, potrebbero essere “costrette” a inondare il mondo con i loro manufatti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Risparmio e investimenti, ogni venerdì
Iscriviti e ricevi le notizie via email