Una sorpresa continua, Paolo Ruffini. Dopo il liceo ha fatto l’impiegato comunale e la comparsa negli spot pubblicitari, il primo film l’ha girato nel 1997 con Paolo Virzì (era Ovosodo) e dopo un po’ è passato con successo a fare il vj per Mtv, a condurre in tv e a recitare in tante commedie — compreso i cinepanettoni – fino alla battutaccia a Sophia Loren del 2014 durante la cerimonia di consegna dei David di Donatello, («Lei è sempre una topa meravigliosa…»). In quell’occasione lo asfaltarono praticamente tutti, lui non si scompose più di tanto e continuò a fare le sue cose, fra cui tanto teatro, soprattutto con la compagnia Mayor Von Frinzius di Livorno — Un grande abbraccio, Up&Down etc. — che lavora da quasi trent’anni con attori disabili (ha appena finito la prima parte del tour del travolgente spettacolo Din, don, down, sempre sold out, che il 2 e 7 gennaio sarà all’Arcimboldi di Milano e il 9 febbraio al Brancaccio di Roma). E poi negli ultimi due anni ha firmato come regista un documentario sull’Alzheimer, PerdutaMente; un libro, Io posso solo amare; e un podcast, Babysitter; che è diventato anche uno spettacolo teatrale con tre bambini al suo fianco. A 46 anni, basta e avanza.
Quante cose: non saranno troppe?
«Non lo so. Di sicuro mi sento un artista. E ciò che mi rende tale non è tanto la bellezza o la bruttezza di quello che faccio — chi lo decide poi non l’ho mai capito — ma la libertà con cui mi esprimo. L’ho capito crescendo, infatti, non ho più paura del tempo che passa. Faccio quello che voglio. Oggi ho una mia società, produco i miei spettacoli, spesso anche quelli degli altri (di Teo Mammucari, Giuseppe Cruciani, Rocco Siffredi, ndr), e me ne fotto del fatto che si deve stare sempre attenti a non offendere qualcuno. Detesto il politically correct».
Non farà mica politica?
«No. Io mi intendo di spettacolo».
Le mancano i cinepanettoni?
«Certo. Se De Laurentiis mi chiamasse per farne un altro, andrei subito. Mi manca quella trivialità intesa come rottura degli schemi. Tutto ormai è dominato dai social e lì mi sembra tutto molto banale e prevedibile. Roba da pecoroni. Oggi talenti come Villaggio, Salce, Monicelli, ma anche Almodovar o Allen farebbero fatica ad affermarsi. Se Einstein pubblicasse la teoria della relatività su Instagram e Gigi da Lamporecchio commentasse dicendogli che è un coglione prenderebbe una valanga di like».
Com’è arrivato a lavorare con i disabili della Mayor Von Frinzius?
«Perché chi li guida, Lamberto Giannini, è un mio amico. Da trent’anni fa un teatro di contaminazione, perché è una compagnia con persone disabili e no. E questa per me è la vera inclusione. Sia chiaro: non sono un eroe né un filantropo e non ho parenti down. Sto bene con loro e mi divertono: quelli che hanno i cromosomi come i miei sempre più spesso li trovo banali».
La lezione più importante che ha imparato da quando fa questo tipo di spettacoli?
«Che la lentezza è bella. Meglio tenere il cellulare un po’ più in tasca e guardarsi intorno. Avere un’idea diversa sulle cose. Non penso che i disabili siano speciali, migliori o peggiori di me, ma unici e bisognosi. Uno di loro, un amico come Andrea, non può andare in bagno da solo, ma il fatto che io lo accompagni e che lo aiuti non mi rende straordinario. Fra esseri umani dovrebbe essere normale aiutarsi».
Che Italia si vede dai palchi che frequenta?
«Un Paese meravigliosamente disunito che, da Bolzano a Pachino, si ritrova solo a tavola. E poi da noi troppa gente ha un’educazione al dolore eccessiva. Troppi sono gli italiani che sopportano insostenibili disservizi, incurie, disonestà».
Che tipo di frequentazione ha avuto con il dolore?
«Mi viene in mente il mio babbo che non c’è più… La verità è che sono un privilegiato. Tiziano Terzani diceva: «La mattina, appena svegli, bisogna dare da mangiare alle formiche. Essere grati». Aveva ragione»
Quindi le capita anche di essere felice, ogni tanto?
«Sì, però non l’ho mai raggiunta facilmente. Da ragazzo mi tatuai Peter Pan perché non volevo crescere, ora sto bene così».
Ne ha altri, giusto?
«Sulla schiena che scende fino al sedere ho Wile E. Coyote e Gatto Silvestro che si stringono la mano dopo aver impiccato Beep Beep e Tweety. Sparsi, in altre parti del corpo, una coccinella, Homer Simpson, Topolino, Charlie Chaplin».
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L’ultimo che ha fatto?
«Il viso di Corrado, il presentatore. Ce l’ho sulla spalla».
Ha anche una frase di Sant’Agostino: “Ama e fa ciò che vuoi”.
«Bello, no? È una forma di anarchia romantica. Dice ciò che conta».
Nella pratica quotidiana, però, amare e fare quello che uno vuole è un po’ complicato o no?
«Sì, nelle relazioni è difficile da praticare. L’amore incondizionato è la cosa più complessa da trovare. Forse solo con gli amici è possibile».
Lei ne ha di amici così?
«Penso di sì. Spero».
è single o in coppia?
«Sono fidanzato con un essere umano femminile dotata di topa».
A proposito, quanto l’ha pagata la battuta su Sophia Loren?
«Mi ha allontanato dai salotti romani, ma niente di più. Non ho mai fatto un film con Valerio Mastandrea o Edoardo Leo… Sono responsabile di quello che faccio io, non di quello che capiscono gli altri. Ho preso la torta in faccia, ma non mi sono sporcato: fa parte del gioco».
All’epoca era molto esposto.
«Appunto. Il problema è che questo è un Paese che il successo non lo perdona a nessuno. Tanti non vedono l’ora che la gente cada per calpestarla».
Lei in “Babysitter” lavora con i bambini: ha detto che le piace lavorare con loro perché credono a tutto. Lei a 46 anni in cosa crede?
«Negli esseri umani. E in Dio, ma senza pesantezze. Credo nell’amore, non nel Giudizio universale».
Un figlio suo lo fa o no?
«Non lo so. Sono meravigliosi, una risorsa fantastica. Forse perché li tratto da adulti bassi».
Con la sua società di produzione, che ha 23 dipendenti, produce gli spettacoli di Siffredi, Cruciani e Mammucari: le piacciono gli irregolari?
«Sì, incoscienti e disobbedienti. Come me».
A Mammucari dopo la lite con Francesca Fagnani che messaggio ha mandato?
«Ti abbraccio. Punto. Non si è trovato bene e se n’è andato. Non mi sembra la fine del mondo».
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Fin qui il suo bilancio com’è?
«Sono contento e in buoni rapporti con tutti. Torno anche su Rai1 con un film, Poveri noi».
A chi deve tanto?
«Marco Giusti, Aurelio De Laurentiis e Luca Bizzarri, che mi scelse quando era consulente editoriale di Mtv. E Paolo Virzì che mi fece fare Ovosodo».
L’errore peggiore?
«Tanti. Da giovane ero agitato: ho aperto un estintore in classe, ho tirato il freno a mano del treno in corsa, ho chiamato a scuola per dire che c’era una bomba… Ora tutti dicono che sono stati bullizzati, anche tanti colleghi. Io invece ero un bullo. Non violento, però. Si può dire, sì?».
La cosa che le è venuta meglio?
«Il documentario sull’Alzheimer».
A 50 anni dove e come si vede?
«In teatro. Tra cent’anni non so se ci sarà ancora TikTok, ma un palcoscenico dove raccontare storie, sì».
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Ma il suo quid qual è?
«Forse essere infantile, non prendere nulla troppo sul serio».
È vero che ha scritto un romanzo su Mussolini, che esce a febbraio?
«Sì. Come il precedente lo pubblica Elisabetta Sgarbi con Baldini e Castoldi. Si intitola Benito, presente!».
Che cosa racconta?
«La vicenda di un prof di sinistra, quella di una volta, che insegna al liceo classico. Mentre spiega il Ventennio, un alunno gli dice che in fondo Mussolini ha fatto tante cose buone, è stato un bravo statista… Lui si incazza e lo butta fuori dalla classe strattonandolo malamente. Il preside vede la scena, si arrabbia, e lo trasferisce a Predappio, in una scuola elementare. Un giorno, sotto la pioggia, mentre corre per non arrivare in ritardo in classe, il prof ora maestro viene colpito da un fulmine… Si risveglierà nel 1890. E quando fa l’appello fra i bambini di sette anni trova un certo Mussolini Benito…».
Un viaggio nel tempo?
«Esatto. Cercando di cambiare la Storia. Parlando d’amore».
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