Tra funzionari e addetti ai lavori che per due giorni popolano la Puskás Aréna di Budapest, l’impressione è comune. Ed è resa plastica dall’acuirsi della crisi di governo che nei prossimi mesi porterà al voto la Germania del socialista Olaf Scholz, al più entro marzo: quella che sul Vecchio continente stia per chiudersi un’era. Qualcuno arriva pure a scomodare la celebre massima di Ionesco: «Dio è morto, Marx è morto, e pure io non mi sento tanto bene». Solo che i protagonisti dell’aforisma sono i leader apparentemente al tramonto: quelli che fino a qualche anno fa davano le carte, in Ue.
E Scholz, «dead man walking» lo apostrofano non senza malizia nelle altre delegazioni, è solo la punta dell’iceberg. Il cancelliere tedesco atterra a Budapest con un giorno di ritardo e non ha una bella cera. Stando ai sondaggi, due terzi dei tedeschi chiedono di tornare alle urne il prima possibile. Gli elettori della sua Spd vogliono che a correre al suo posto sia il ministro della Difesa, Boris Pistorius. E in ogni caso i socialisti si classificherebbero terzi, stando alle rilevazioni, dietro ai cristiano-democratici della Cdu in ascesa e all’ultradestra xenofoba di Afd. Per non parlare del botta e risposta con Elon Musk che gli ha dato dello «stupido» (replica: «Non me ne sono nemmeno accorto», anche se dal suo staff sibilano: «Su X c’è libertà per gli stupidi»).
Ma se Scholz è a fine corsa, anche diversi suoi colleghi non stanno molto bene. L’altro socialista dei “grandi”, Pedro Sanchez, alle prese con la tragedia di Valencia, al vertice neanche c’era. Emmanuel Macron, che pure ha provato a dare la sveglia all’Ue esortando i Ventisette a trasformarsi rapidamente in «carnivori», ha toccato il minimo storico di popolarità. Con Marine Le Pen che scalpita per prendere il suo posto alle presidenziali del 2027. All’epoca della prima amministrazione Trump, l’inquilino dell’Eliseo era il volto nuovo della politica europea, destinato a raccogliere il testimone dell’era Merkel. Ora molti lo considerano alla stregua di una “anatra zoppa”. Donald Tusk, che appena un anno fa ha riportato i popolari europei al governo della Polonia, deve fare i conti con una serie di problemi interni, a cominciare dal difficile rapporto con la Bielorussia. Tanto che ha annunciato uno stop alle richieste d’asilo di migranti in ingresso da quel confine, scontrandosi pure con il diritto europeo.
RASSEGNAZIONE
«Nel 2016, all’epoca del primo gabinetto del tycoon – ragiona una fonte diplomatica – in Europa c’era quasi la volontà di sfidare Trump. Di mostrare che il modello europeo poteva dimostrarsi vincente contro la linea “America first”. Ora, invece, prevale la rassegnazione». Atmosfera che, secondo alcune interpretazioni, si intravede pure nelle scarne conclusioni del vertice. Che si limita di fatto a richiamare i rapporti Draghi e Letta, promettendo sì di voler attuare le indicazioni dell’ex capo della Bce ma «a giugno 2025», e sotto forma di «proposte». E così oltre alla massima di Ionesco viene in mente la lamentela di Henry Kissinger: «Quando voglio parlare a telefono con l’Europa, non so chi chiamare». Problema che potrebbe presentarsi pure a Trump, sempre che il piano di Meloni (magari con l’aiuto di Musk) di fare da “cerniera” tra Usa e Ue non abbia successo. Curiosità: al termine del summit dei Ventisette, il pranzo si dilunga e la “foto di famiglia” salta. L’impressione è che, se l’avessero scattata, quell’immagine sarebbe stata destinata a sbiadire in fretta.
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