15.05.2025
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Technology

Il rischio “spezzatino” che fa tremare Google


C’è chi parla di “spezzatino”, chi della causa antitrust del secolo. Ma sul fatto che si tratti di monopolio nessuno ha più dubbi. Non da quando il giudice Amit Mehta lo scorso agosto ha stabilito con chiarezza come Google abbia violato le leggi antitrust statunitensi spendendo miliardi di dollari in accordi esclusivi con operatori di telefonia mobile, sviluppatori e player storici del settore — in particolare Apple e Samsung – per far comparire il suo browser Chrome come impostazione predefinita sui dispositivi dei suoi partner. Per limitare l’influenza di Big G sul mercato, dal Dipartimento di Giustizia americano arriva una prima ricetta che propone di “spacchettare” Big G. Si parte dalla vendita del browser Chrome (stimata da Bloomberg intorno ai 20 miliardi di dollari) fino a misure più drastiche come la cessione di Android, il sistema operativo di Google utilizzato nel 70% degli smartphone.

LE CONDIZIONI
I federali hanno chiesto inoltre che il gigante tecnologico ponga fine alla sua partnership da 20 miliardi di dollari con Apple, che non rientri nel mercato dei browser per almeno altri cinque anni e che non investa in altre aziende concorrenti, in prodotti di intelligenza artificiale per la ricerca o in tecnologie per la pubblicità online. Entro agosto, Mehta deciderà quale di queste soluzioni dovranno essere applicate da Alphabet, la società madre di Google che controlla l’impero della ricerca online e che dal suo motore – presente in maniera ormai indissolubile in tantissimi prodotti dell’azienda — trae il 56% dell’intero fatturato annuo. 

I PRODOTTI
Questa decisione potrebbe riscrivere il web per come lo conosciamo oggi. Intanto perché, come puntualizza Kent Walker, presidente dei Global Affairs di Google, «distruggerebbe una serie di prodotti dell’azienda che vanno al di là della ricerca online». Poi perché creerebbe un vuoto senza precedenti nel mercato delle ricerche sul web, dove Google oggi detiene il 90% del market share. Certo su quel mercato non manca il fermento da quando si è affacciata l’intelligenza artificiale con prodotti come Bing AI di Microsoft, “ChatGPT Search” di OpenAI e altri sistemi IA che catalogano le informazioni sul web in maniera più organica e “ragionata” rispetto ai motori tradizionali. La stessa Big G in passato ha affermato che, se proprio qualcuno dovrà sostituirla nelle ricerche online, a farlo sarà «senza dubbio un prodotto basato su IA». 

LA RACCOLTA
Non dimentichiamo però che il settore richiede la raccolta di una mole di dati enorme e investimenti importanti senza ritorni immediati. Google dispone di oltre 25 anni di esperienza e di familiarità tra i consumatori, di un’infrastruttura informatica all’avanguardia e soprattutto di dati unici provenienti dalla galassia Android (Maps su tutti). Sono pochi i player del settore che dispongono di una simile convergenza di dati e investimenti. Così come sono pochi quelli che possono permettersi un browser da 20 miliardi di dollari. E chi dispone di fondi del genere, sottolineano gli esperti, probabilmente si trova già nel mirino dell’antitrust, e dall’acquisto di Chrome trarrebbe più grattacapi che benefici. Chi si muoverà lo farà perciò nel solco della nuova proposta delle autorità americane, la più audace da quando vent’anni fa Washington cercò senza successo di smembrare Microsoft, adducendo motivazioni simili a quelle sollevate oggi contro il colosso di Mountain View. E non è escluso che possa finire allo stesso modo. Una prima sentenza dovrebbe arrivare a metà del prossimo anno ed è ragionevole pensare che Alphabet farà ricorso subito dopo. La corte d’appello potrebbe impiegare un altro anno per emettere una sentenza definitiva, che potrebbe però a quel punto essere molto diversa dalla proposta iniziale del Dipartimento. 

IL PRESSING
Non è chiaro peraltro quanto i procuratori siano intenzionati a intensificare il pressing su Big G adesso che sono cambiati i vertici alla Casa Bianca. Durante la campagna elettorale, Trump ha sottolineato come imporre condizioni troppo pesanti all’azienda di Mountain View potrebbe ostacolare gli sforzi americani per assicurarsi la supremazia tecnologica sulla Cina. Non dimentichiamo infatti che Chrome è sì un prodotto commerciale ma si basa su Chromium, il software open source gratuito di Google che è anche alla base di Edge (il browser predefinito di Microsoft su sistemi Windows), del browser che Amazon utilizza sui suoi tablet e di Opera, che oggi conta 350 milioni di utenti. Insomma, la sua influenza va al di là dei suoi 3,45 miliardi di utenti e coinvolge diversi aspetti dell’economia online che i procuratori federali e il giudice dovranno valutare con estrema attenzione prima di procedere con qualsiasi decisione.

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