Un’altra fumata nera, l’ottava, rinvia ancora una volta il voto in Parlamento del quindicesimo giudice della Corte Costituzionale. Giorgia Meloni alla fine preferisce non “bruciare” Francesco Saverio Marini, costituzionalista e suo consigliere giuridico, appurata la dura realtà: mancano i voti per regalargli un seggio nel più alto organo giuridico del Paese. A metà mattinata, ore 11 e 30, i capigruppo della maggioranza informano i parlamentari accorsi da ogni dove in fretta e furia per eleggere il professore caro alla premier: i numeri necessari, i tre quinti dei voti, non ci sono. Meloni non rischia la conta in aula, risicatissima a causa dell’Aventino compatto delle opposizioni, che restano tutte fuori in una prova di insolita unità per il “campo largo” a guida Pd-Cinque Stelle. Ed ecco allora l’indicazione comparire sugli smartphone degli onorevoli di FdI, Lega, Forza Italia e Noi Moderati: «Voteremo scheda bianca».
LO STOP
Il Transatlantico gremito di senatori e deputati una volta tanto riuniti è una bolgia che via via si svuota, come l’entusiasmo per una giornata che si chiude con un nulla di fatto: il governo tenterà un altro voto in aula forse fra due settimane. Ieri il pallottoliere non ha sorriso alla presidente del Consiglio.
Servivano 363 preferenze, la maggioranza partiva, sulla carta, da 360. Troppe le incognite per rischiare l’elezione. A partire dalle assenze più o meno obbligate, dai ministri in missione Antonio Tajani e Raffaele Fitto al Senatùr Umberto Bossi, ai forfait vari ed eventuali. Verso le 14, mentre la processione di onorevoli si avvia all’uscita, il tabellone di Montecitorio conferma la fumata nera: 342 i votanti, 323 schede bianche, 10 nulle e 9 preferenze disperse. La caccia frenetica ai voti del gruppo misto andata in scena nelle ultime ore non è bastata a far dormire tranquilla la timoniera del centrodestra. Di qui la decisione di rinviare. Venti i nomi che mancano all’appello della maggioranza: dal leghista Andrea Crippa al meloniano Andrea Di Giuseppe di stanza negli States. Ma sono cifre da prendere con le pinze, perché l’ordine di scuderia partito in mattinata — scheda bianca per tutti — ha evidentemente rallentato la corsa in aula. È palpabile la rabbia nel centrodestra. Ha il volto e la voce di Giovanni Donzelli, a capo dell’organizzazione di FdI. Circondato dai cronisti in Transatlantico se la prende con le opposizioni aventiniane: «Non possiamo tenere bloccata l’Italia perché sono divise tra loro».
Non ci sta il colonnello di via della Scrofa a parlare di sconfitta, promette battaglia per le prossime settimane: «Dobbiamo eleggere un giudice che piace a Elly Schlein? Se le opposizioni pensano di bloccare le istituzioni a vita fino a quando la maggioranza non fa quello che dicono loro sbagliano». Mentre loro, le opposizioni, gongolano. «Meloni ha fatto campagna acquisti e poi ha pensato di avere la maggioranza qualificata anche senza accordo, ma l’arbitro si sceglie insieme» se la ride Matteo Renzi con Sky Tg24. Mentre Giuseppe Conte risponde sdegnato ai rumors di un patto segreto tra FdI e Cinque Stelle: sì alla Consulta in cambio di un posto (o più di uno) in Rai. «Nessun accordo. Li abbiamo lasciati da soli in Aula con le loro paranoie, a scovare i traditori dentro Fratelli d’Italia».
Tutto da rifare. Sotto traccia prosegue a destra la caccia alle “talpe” che hanno fatto trapelare venerdì la chiamata in aula per l’elezione di Marini, bruciando l’effetto sorpresa in cui confidava la premier. Qualche sospetto dei meloniani è diretto anche agli alleati leghisti che hanno dato mostra di «spendersi poco», l’accusa, per la conta in aula. Si vedrà. La giornata di passione a Montecitorio ha regalato almeno, questo sì, un insolito colpo d’occhio. Ministri, sottosegretari, colonnelli e soldati semplici tutti precettati per inserire la scheda nel catafalco. In Transatlantico appaiono volti che quasi mai si intravedono da quelle parti.
RITORNI
Ecco Marta Fascina riapparire dalle nebbie di Arcore, chignon sparito e capelli sciolti, sorriso a trentadue denti, come anche Antonio Angelucci, imprenditore e senatore leghista che assai raramente frequenta il corridoio dei passi perduti. Ora di pranzo, quando i giochi sono fatti, alla buvette Carlo Nordio ci scherza su e fa cin-cin con un calice di bollicine insieme a un gruppetto di parlamentari della “fiamma”.
Francesco Lollobrigida poi, da queste parti, non si vedeva da un pezzo. «L’Aventino non lo capisco, è stato scelto in un periodo nefasto della nostra storia» dice semiserio e poi fila via di corsa inseguito dai giornalisti, affronta la pioggia torrenziale che batte sulla piazza di Montecitorio. Ma il vero mattatore del Transatlantico è Claudio Lotito: il patron della Lazio, senatore di Forza Italia, è appena visibile dietro un nugolo di cronisti divertiti e con i taccuini aperti. Basta politica, il pallone prende il sopravvento: «Chi vince lo scudetto? Non sono mica il mago di Arcella».
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