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«I videogiochi, tesori da musei, ispirazione da film»


Quando David Cage ha cominciato a creare videogiochi, verso la fine degli anni Novanta, diventando ben presto uno dei più apprezzati autori del settore, non immaginava di poter lavorare con stelle hollywoodiane del calibro di Elliot Page, Willem Dafoe, o con star della musica come David Bowie.

Quella con il cantante di Starman è stata anche una delle sue prime collaborazioni, durante lo sviluppo di Omikron: The Nomad Soul, videogioco cyberpunk uscito nel 1999 per Pc. «Mi chiese: “Cosa ti aspetti da me?”», ricorda Cage di quell’incontro con Bowie, che sarebbe dovuto durare venti minuti, ma che invece ha visto il cantante e il giovane designer di videogiochi chiacchierare per quasi due ore. «Era curioso del progetto, e si rifiutò di farmi utilizzare canzoni sue già uscite. Mi disse: “Farò di più, scriverò un intero album appositamente per Nomad Soul»».


Cage, al secolo David De Gruttola, ha 55 anni, nel 1997 ha fondato il suo studio, Quantic Dream, a Parigi. Voleva sperimentare i confini del linguaggio dei videogiochi, cercando ispirazione dal cinema, con attori, e mettendo al centro la trama. I suoi riferimenti? Federico Fellini, Sergio Leone e Akira Kurosawa. Al Museo Nazionale del Cinema di Torino, il 2 luglio, l’autore francese ha ricevuto il premio Stella della Mole, per aver avvicinato il mondo del cinema all’interazione dei videogiochi, mettendo in mano alle giocatrici e ai giocatori scelte morali che potevano cambiare il corso della storia. «Noi parliamo di umanità e valori universali, e cerchiamo di metterli in discussione per vedere cosa ne pensano i giocatori e le giocatrici», dice il designer, che negli anni ha firmato titoli bestseller come Fahrenheit, Heavy Rain, Beyond: Due anime e Detroit: Become human.
I videogiochi sono un’arte punk?
«Una volta fare videogiochi era qualcosa di punk, quando ho iniziato era un medium ribelle. Nessun genitore voleva che il proprio figlio o figlia lavorasse nel settore, non pensavano fosse un lavoro serio. Ma ora le cose sono cambiate. Creare videogiochi non è più punk».
Ora i games sono parte del Museo Nazionale del Cinema, è un passo importante?
«Sì, lo è. Una volta anche il rock ‘n’ roll, i fumetti e i graffiti erano culture marginalizzate che poi sono arrivate nei musei. Per i videogiochi è un riconoscimento alla loro influenza sulla cultura contemporanea».
Secondo lei, cos’è un videogioco?
«I videogiochi sono un’esperienza che può far cambiare ciò che provi, i tuoi sentimenti e la tua percezione. Sono opere che hanno un’influenza e che lasciano un segno nella tua mente. I film che hai visto hanno lasciato una traccia nella tua memoria, stesso discorso per i libri. Anche i videogiochi hanno lo stesso potere».
Il cinema può imparare dai videogiochi?
«All’inizio l’industria cinematografica non aveva molto rispetto per i videogiochi. In un certo senso avevano ragione, eravamo agli inizi, praticamente nella nostra infanzia come forma d’arte. Volevamo imparare e facevamo errori. Ma poi siamo cresciuti, e ora il dialogo tra le due forme d’arte è molto più interessante. Molti registi giocano ai videogiochi, sono parte della loro cultura artistica. Quando fanno film trasportano questo bagaglio con loro».
Un esempio?
«I movimenti della cinepresa. Noi possiamo muoverla a nostro piacimento perché non è fisicamente presente, è digitale. Ci permette quindi di proporre inquadrature che il cinema non riesce a realizzare. E ora nei film si vedono a volte delle sequenze che imitano questa nostra libertà. Hanno cominciato a copiare i nostri errori, quello che abbiamo cercato di evitare. È interessante questa influenza reciproca, credo possa essere utile a entrambi».
In Quantic Dream avete mai cancellato un progetto?
«Abbiamo lavorato su alcuni prototipi che non ci hanno soddisfatto, ma non c’è mai stato un progetto che abbiamo interrotto nel mezzo dello sviluppo. E anche nei nostri videogiochi, non siamo soliti a grandi tagli nei contenuti, forse una scena in Heavy Rain e due in Detroit: Become Human. Ma niente di più».
Come usate l’intelligenza artificiale?
«Usiamo l’IA per automatizzare alcuni processi molto ripetitivi durante la produzione. La usiamo anche per le animazioni facciali, per aspetti molto tecnici. Io personalmente la uso un pochino per ispirazione, per visualizzare meglio alcuni luoghi. Ma mai nel design, assolutamente. Nessun design a Quantic Dream viene realizzato con l’IA».
L’IA può sostituire i lavoratori?
«L’uso che ne facciamo nel nostro settore cambierà certamente. In futuro la impiegheremo sempre di piú per sviluppare videogiochi più velocemente, e avrà certamente un grande ruolo anche sul lato creativo. Non so se è una cosa positiva o negativa, sò che sarà uno strumento di supporto. E non penso che sostituirà i lavoratori nel breve periodo».
Nel 2018 ci sono state inchieste per l’ambiente di lavoro tossico a Quantic Dream (comportamenti inappropriati e carichi di lavoro eccessivi, ndr). La situazione è migliorata?
«Sette anni fa abbiamo avuto un incidente creato da uno dei nostri 200 dipendenti. Il 50% delle nostre manager sono donne, le persone LGBT giocano un ruolo importante nel nostro studio sin dall’inizio. Abbiamo pochissimo turn-over e continuiamo ad assumere. È interessante vedere come la nostra industria pretenda che ogni studio sia perfetto. Cerchiamo di migliorare ogni giorno».

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