È un cantiere sotterraneo. I cui lavori nelle ultime settimane hanno giocoforza tirato il freno, coi big del centrodestra alle prese con la campagna per le regionali. Ma appena archiviato il voto in Veneto, Campania e Puglia, il tavolo tornerà ad aggiornarsi. Con l’obiettivo (ambizioso) di chiudere la pratica entro l’estate. Per non arrivare in zona Cesarini della legislatura e ritrovarsi a discutere a ridosso delle politiche, che potrebbero tenersi tra aprile e maggio 2027. È la nuova legge elettorale l’opera a cui lavorano sottotraccia i maggiorenti dei partiti di governo. Materia di per sé incandescente. Ma ancor di più all’indomani dalle tensioni, poi rientrate, sul filo Quirinale-Fratelli d’Italia. Perché i sospetti corrono. E al quartier generale meloniano di via della Scrofa c’è chi legge quelle frasi carpite al consigliere Francesco Saverio Garofani sulla necessità di arginare Meloni proprio come un effetto della discussione in corso sul nuovo sistema elettorale, con il quale la premier punterebbe a “blindarsi” per altri cinque anni. Motivo per cui sul dossier, gestito dai fedelissimi della leader di FdI, le bocche sono cucite più che mai.
Ma l’impianto di massima – frutto, raccontano, di consultazioni con costituzionalisti come Felice Giuffrè – è ormai definito. E prevede alcuni punti fermi ritenuti irrinunciabili, specie se la riforma del premierato (come pare più che probabile) non dovesse andare in porto in tempo per fine legislatura. Il primo: l’addio ai collegi uninominali del Rosatellum. Che potrebbero favorire il centrosinistra al Sud, e quindi portare al pareggio in uno o in entrambi i rami del parlamento. Col rischio dell’ingovernabilità. Dunque, addio collegi. In favore di un premio di maggioranza che scatterebbe con una soglia minima di (almeno) il 40% dei voti. E che potrebbe essere mobile, assicurando per esempio il 55% dei seggi in caso di vittoria col 42% dei consensi, o il 58-60% alla coalizione che vince con il 45. A ogni coalizione sarebbe collegato un listino di candidati, eletti in blocco in caso di premio.
Problema: al Senato, per Costituzione, il premio va assegnato su base regionale. Il che darebbe vita – come avveniva col contestatissimo “Porcellum” – a una vera e propria “lotteria” di 20 diversi premi regionali. Col probabile risultato di emiciclo a Palazzo Madama senza maggioranza, o con una maggioranza diversa da quella di Montecitorio. Che fare, dunque? La via migliore, ragionano dentro FdI, sarebbe quella di una «chirurgica modifica costituzionale» all’articolo 57, per far sì che anche al Senato il premio sia assegnato su base nazionale. Ma i meloniani non si fanno illusioni: per riuscirci senza referendum serve il sì dei due terzi dell’assemblea. Bisognerebbe, in pratica, coinvolgere «almeno il Pd». E nonostante i dem in privato avrebbero concesso alcune aperture almeno sulle linee di fondo, per un’intesa bipartisan «non sembra ci sia il clima politico adatto». Un muro contro muro che trova conferma nelle parole di ieri di Elly Schlein: «Se vogliono affrettarsi a cambiare la legge elettorale adesso è perché hanno capito che con la coalizione che abbiamo costruito alle Regionali con questa legge loro perdono. E non mi sembra una buona ragione per fare cambiamenti».
Ecco allora farsi strada un’altra ipotesi, suggerita dalla Lega: assegnare il premio su base «circoscrizionale», ossia su una sorta di macro-regioni come quelle in cui si ripartiscono i candidati alle Europee. Così da non violare il dettato costituzionale, almeno secondo chi suggerisce questa strada. E con un altro vantaggio per il centrodestra: quello di “diluire” il peso delle regioni rosse. L’Emilia, per esempio, sarebbe accorpata al Nord-Est, “bilanciata” per così dire dal fortino Veneto, la Toscana confluirebbe nel Centro, la Puglia nel Sud. Rendendo di fatto i premi di maggioranza a portata di mano.
LA SCHEDA SENZA PREMIER
Solo un ipotesi allo studio, per il momento. Anche se c’è chi si dice certo che anche con la “lotteria” dei premi regionali il centrodestra avrebbe comunque la meglio, partendo sconfitto solo nelle regioni storicamente rosse (come Emilia e Toscana, mentre la Campania sarebbe considerata contendibile). Più definiti, invece, altri dettagli. A cominciare dai mini-listini bloccati, con quattro candidati per collegio e senza preferenze (che tutti reclamano ma nessuno vuole davvero). E poi, l’indicazione del premier sulla scheda. Idea che sarebbe definitivamente tramontata, anche per il rischio incostituzionalità. Sostituita da un’indicazione più soft, quella del «capo della coalizione», proprio come avveniva nel “Porcellum”. Col doppio vantaggio, per FdI, di tirare acqua al mulino di Meloni e mettere in difficoltà la coalizione progressista. Sul resto, invece, si dovrà tornare a discutere, anche in maggioranza. Lo si farà di nuovo dalla prossima settimana. Rigorosamente sottotraccia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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