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i giovani usano l’IA soprattutto per studiare. Per 1 su 4 è un supporto emotivo


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I giovani italiani non stanno rimpiazzando le relazioni umane con “fidanzati digitali”, ma usano l’intelligenza artificiale soprattutto per studiare, allenarsi e sperimentare in modo curioso. Allo stesso tempo, però, una parte significativa di loro cerca in questi strumenti anche un sostegno emotivo.

È la fotografia che emerge dallo studio “Beyond Curiosity: Young Adults’ Instrumental Adoption of Social Chatbots in Italy”, che contraddice le narrazioni dominanti sull’utilizzo dell’Ai da parte dei più giovani, che li vuole pronti a dire addio alle relazioni umane.

La ricerca è stata condotta su un campione di 534 adulti italiani dal gruppo di ricerca PAD – Psychology of AI and Digital Environments, con sede presso l’Università di Roma Tor Vergata, in collaborazione con Sapienza Università di Roma, Università di Zurigo e University of Toronto.

Dallo studio emerge che tra i giovani adulti (18–34 anni), il 51,2% ha usato almeno una volta un social chatbot, contro il 40,4% degli over 35; tra questi giovani utenti, i motivi principali di utilizzo sono supporto allo studio e al lavoro (57,6%) e curiosità/ intrattenimento (55,8%); l’uso per supporto emotivo riguarda una minoranza, ma tutt’altro che irrilevante (25,6%), mentre l’uso per scopi romantici o sessuali rimane ancora marginale (4,1%) e limitato esclusivamente alla fascia più giovane.

«I dati ci dicono chiaramente che i giovani italiani stanno usando l’IA in modo prevalentemente strumentale – come strumento di studio, organizzazione e auto-miglioramento – più che come sostituto delle relazioni umane», spiega Mattia Della Rocca, ricercatore a Tor Vergata e coordinatore del PAD International Research Group. «L’immagine apocalittica del ragazzo che lascia il partner per vivere solo con il suo chatbot, al momento, non trova riscontro nei numeri».

Un quarto degli utenti giovani cerca anche supporto emotivo

Se è vero che l’uso “affettivo” non è maggioritario, il fatto che circa un quarto dei giovani che usano chatbot dichiari di farlo anche per supporto emotivo è un segnale importante. «Quel 25,6% non è una curiosità statistica: è un campanello d’allarme sul bisogno, molto concreto, di ascolto e supporto psicologico tra i più giovani», sottolinea Della Rocca. «Ci dice che una parte non trascurabile di ragazzi e giovani adulti – invece di rivolgersi a servizi di salute mentale, spesso difficili da raggiungere – sta esplorando forme di auto-aiuto digitale.

Non possiamo liquidarlo né come “moda” né come semplice gioco».

Le persone che usano i chatbot per motivi emotivi riportano piccoli ma reali miglioramenti del proprio benessere: un leggero aumento dell’umore (2,46 su 5) e della fiducia in sé (2,26 su 5) dopo le interazioni. Non si tratta di “terapia”, ma di micro-interventi quotidiani che, nel bene e nel male, cominciano a entrare nelle routine di gestione di stress, ansia e solitudine.

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Nessuna “dipendenza affettiva”

Le scale sulla qualità della relazione con il chatbot mostrano comunque livelli molto bassi di legame emotivo e antropomorfismo, ovvero attribuzione di caratteristiche umane alle macchine. I giovani italiani sono meno legati emotivamente ai bot e meno ingannati dalle sembianze di linguaggio umano di quanto potremmo pensare. 

Il punteggio medio di “legame emotivo” con il chatbot tra i giovani è 1,34 su 5; la sensazione di essere capiti “come da un amico” è altrettanto bassa (1,86 su 5); trascurare le relazioni umane a causa del chatbot quasi non si verifica (1,06 su 5). «Per la maggior parte dei giovani, il chatbot funziona più come una sorta di integratore digitale che come un sostituto degli altri», commenta Della Rocca. «Alcuni si sentono un po’ meglio dopo averci parlato, ma non stiamo osservando, almeno per ora, una fuga di massa dalle relazioni reali verso partner artificiali».

Sia giovani sia adulti, tuttavia, condividono un forte scetticismo rispetto all’idea di sostituire gli esseri umani: definiscono “strano o sbagliato” avere una relazione con un chatbot (4,00 giovani; 3,81 adulti su 5);ma respingono con decisione l’idea che un chatbot possa rimpiazzare una relazione umana (1,67 e 1,62 su 5).

«Siamo in una fase di transizione culturale», osserva Della Rocca. «Molti giovani usano davvero i chatbot, anche per parlare di emozioni, ma preferiscono non dirlo per non passare come “strani” o “fragili”. È uno schema che abbiamo già visto con la terapia psicologica, con i social network agli inizi, e con le app di dating».

Integrare IA e salute mentale

Secondo Della Rocca, questi risultati invitano a ricalibrare il dibattito pubblico sui rischi dei chatbot sociali: «Da un lato – dice – i dati smentiscono l’idea che i chatbot stiano distruggendo le relazioni umane: non vediamo isolamento di massa né “dipendenze affettive” generalizzate. Dall’altro, quel 25,6% di giovani che usa l’IA come supporto emotivo ci interroga direttamente su quanto i servizi di salute mentale siano accessibili, percepiti come accoglienti e non stigmatizzanti. Ignorare questo dato sarebbe un errore».

«Il messaggio finale è duplice: dobbiamo continuare a monitorare i casi in cui la relazione con l’IA diventa più intensa e problematica, ad esempio sul piano romantico o sessuale; ma è altrettanto urgente pensare a come integrare in modo responsabile questi strumenti in una più ampia ecologia di cura, che includa la psicologia e la psichiatria tradizionali. L’IA non è qualcuno da amare, ma sta già diventando, per molti, qualcosa a cui chiedere aiuto».


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