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«I falsi miti mettono in ombra la sua rivoluzione»


Il teatro delle macchine pensanti è il nuovo libro di Stefano Epifani, docente universitario e grande specialista di innovazione sostenibile. 10 falsi miti sull’intelligenza artificiale e come superarli è il sottotitolo del saggio, che cerca di fare chiarezza su un tema complesso e, spesso, di difficile comprensione.

Come è nato questo progetto?

«Si parla sempre più spesso di macchine che pensano, di computer senzienti, ma l’impressione è che la narrazione attorno all’intelligenza artificiale abbia di gran lunga superato la realtà dei fatti. E questo perché una serie di falsi miti si sono imposti all’attenzione pubblica, distorcendo il fenomeno».

Come correggere la narrazione prevalente?

«Sfatare i falsi miti significa guardare la realtà dei problemi e delle opportunità. Basti pensare al recente annuncio della creazione di un ministro digitale».

Una ministra virtuale albanese, creata dall’intelligenza artificiale.

«Esatto, è una costruzione narrativa e chiunque abbia un minimo di competenza tecnica sa che è totalmente fantascientifico. Ma, ciò nonostante, un governo ha costruito una narrazione facendo una sorta di artificial intelligence washing, dove prima c’era il greenwashing. Giocando sul fatto che le persone pensano che l’intelligenza artificiale sia infallibile. E invece non è affatto così».

Lei scrive che «i falsi miti rispondono a bisogni profondi: il bisogno di ordine, di identità, di stabilità emotiva. E proprio per questo sono, così come la post-verità che li alimenta e dai quali si alimenta, così resistenti al cambiamento».

«Sì perché è difficile batterli, sono molto radicati. L’antropomorfizzazione, ovvero vedere al di fuori di noi uno specchio di noi stessi, è qualcosa che Walt Disney ha cominciato a fare con Topolino. Si cerca sempre di identificare nei fenomeni che ci circondano un riflesso di noi. La gente crede che basterà aumentare la potenza e la velocità per arrivare e un risultato simile a quello del cervello umano».

Quindi la stupidità umana potrebbe vincere sull’intelligenza artificiale?

«Diciamo che mi sembra un’ottima metafora, sì».

L’IA ci ruberà il lavoro? Ci dobbiamo preoccupare, oppure anche questo è un falso mito?

«Stiamo costruendo una società che non prende in considerazione le caratteristiche di uno strumento che è sicuramente, dicono i tecnici, disruptive, ovvero che distrugge quello che c’è, per poi ricostruire. Ma non è l’IA la causa della distruzione, è il modo in cui la usiamo. Le faccio un esempio banale. Io so benissimo che i miei studenti se usano ChatGPT per fare una tesina, invece di metterci 30 ore, ne impiegano una sola. Quindi noi diciamo che l’IA distrugge il lavoro. Ma se invece di un processo di sostituzione puntiamo alla collaborazione, all’integrazione, alla cooperazione, l’effetto finale cambia».

In che modo?

«Nelle Facoltà di medicina degli Stati Uniti hanno prima sostituito, sbagliando, i corsi di radiologia con corsi di data science. Ora li hanno affiancati, perché le competenze del medico non saranno più prevalentemente quelle di leggere una lastra, che già oggi viene letta meglio dal computer. Il radiologo deve interpretarla, comprenderla, capire come rapportarsi con il paziente, sviluppare una diagnosi differenziale supportata dall’intelligenza artificiale. È un discorso che vale per il radiologo, ma anche per il giornalista, il professore, per tutti noi».

Saremo in grado di raccogliere la sfida?

«Il problema è che sta succedendo più o meno quello che è successo con le altre rivoluzioni industriali. Quando noi abbiamo cominciato a lavorare, di intelligenza artificiale non si parlava nemmeno. Oggi a essere ridefiniti siamo tutti noi: intellettuali, giornalisti, professori, medici, avvocati»

L’IA rischia di diventare una scorciatoia per creativi pigri?

«La creatività per l’arte, in generale, è un problema vero. Già oggi, utilizzando sistemi di intelligenza artificiale generativa, siamo in grado di produrre opere ispirate allo stile di un artista. In una famosa ricerca di qualche anno fa, gli esperti di Bach definirono una serie di composizioni generate artificialmente come tra le più belle che avessero mai sentito. Se quella composizione nello stile di Bach ha generato emozioni in chi l’ha ascoltata, si può parlare di arte? Io non lo so. Certo è che il processo di produzione è cambiato totalmente. E qui però c’è un problema. Dove sta la novità?».

Vale a dire?

«Se noi addestriamo una macchina a riprodurre uno stile artistico, la macchina si avviterà su quello, ma non genererà mai qualcosa di nuovo. Benedetto Croce parlava di intuizione lirica, facendo riferimento al mix tra dimensione intellettuale e dimensione artistica. E l’intuizione dove la mettiamo con l’intelligenza artificiale generativa?».

Da dove è nata la spinta a scrivere questo libro?

«Se noi non sfatiamo i miti, non riusciamo a cogliere le opportunità. Questo libro nasce dal fatto che mi ero trovato sempre più spesso a scrivere articoli che avevano lo stesso tono. Non è vero che l’intelligenza artificiale è intelligente. Non è vero che l’intelligenza artificiale ha bisogno di un’etica propria. Non è vero che agisce di propria volontà».

Non crede che l’intelligenza artificiale sia un tantino sopravvalutata? È un costo enorme in termini ambientali e di spreco di energia.

«È vero, l’intelligenza artificiale ha un impatto energetico enorme ma potrebbe essere ottimizzata. Il 4% del totale delle emissioni nasce dal digitale. Un’azienda italiana ha sviluppato con l’IA un sistema che ottimizza del 15% le emissioni di CO2, semplicemente regolando i momenti di accensione e spegnimento degli impianti di condizionamento. Questo vuol dire che, se il 40% delle emissioni urbane di CO2 è generato da questi sistemi e l’intelligenza artificiale consente di abbatterli del 15%, con il 4% del totale delle emissioni urbane, possiamo comunque abbattere le emissioni». 


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