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I “falchi” in trappola caduti sulle loro regole


La battuta sarebbe pure semplice. Tagliare la spesa è facile. Se è quella degli altri. La questione però è molto più seria e complessa. Alla loro prima applicazione le regole del nuovo Patto di stabilità europeo si stanno rivelando indigeste soprattutto per quei Paesi che più hanno spinto per introdurre rigide misure di controllo dei conti pubblici. Quel club di Stati che, giornalisticamente parlando, viene solitamente indicato come dei “falchi”. La Germania, sfiancata dalla crisi politica e da quella industriale ed economica, non è nemmeno riuscita a presentare alla Commissione europea il suo Piano strutturale di Bilancio, il documento con gli impegni obbligatori di spesa da rispettare nei prossimi quattro anni. Oltre a questo, si è vista respingere il Documento programmatico, di fatto la manovra di finanza pubblica per il prossimo anno, proprio perché la spesa non è risultata in linea con la traiettoria indicata da Bruxelles.

GLI ORTODOSSI

L’Olanda, altro Paese con posizioni ortodosse sul controllo dei conti pubblici, ha subito l’onta della bocciatura del suo programma perché sforava al rialzo le indicazioni sul contenimento dei costi. E poi ci sono la Finlandia, l’Estonia e il Lussemburgo, tutte finite nella lista dei “cattivi”. Fino all’insospettabile Austria con un deficit proiettato oltre il 3 per cento del Pil già quest’anno.

All’Italia il nuovo Patto con tutte le sue rigidità non è mai piaciuto. Senza distinzioni di schieramento, in maniera bipartisan. Un anno fa, quando fu approvato, furono solo tre gli europarlamentari del nostro Paese a votarlo.

IL PERCORSO

Eppure con serietà e in silenzio, come ha ricordato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, il Paese ha rispettato i suoi impegni e ottenuto una quasi scontata promozione dalla Commissione europea. Impegni va detto, non banali. Il governo si è vincolato a non aumentare la spesa pubblica per i prossimi cinque anni oltre l’1,5 per cento medio. Meno dell’inflazione, un taglio in termini reali con tutto quello che ciò comporta anche dal punto di vista dei costi politici. Ha accantonato promesse elettorali ormai difficilmente realizzabili come il pensionamento con Quota 41, rimandato riforme draconiane come la flat tax, ridotto drasticamente i contributi alle ristrutturazioni edilizie e ha introdotto altre incisive misure di contenimento dei costi. Il Paese sta dimostrando che onora i suoi impegni. Tiene i conti in ordine. Sta rispettando le scadenze del Pnrr con puntualità, seppure ha qualche ritardo nella spesa. E l’economia, grazie alla resilienza delle sue imprese e alla forza dell’export, mantiene il passo meglio di altri. Agenzie di rating solitamente scettiche sull’Italia, hanno cambiato opinione. Standar&Poor’s ha scritto di aver indossato «gli occhiali rosa». Fitch ha rivisto le previsioni in positivo. Lo spread si è dimezzato.

Il rispetto delle regole e la stabilità politica danno credibilità alla voce dell’Italia. Che in Europa da tempo porta avanti istanze di cui beneficiaria potrebbe essere la stessa Germania. Per esempio sull’auto green, dove la richiesta di rivedere le rigide scadenze per l’uscita dalla produzione del motore endotermico potrebbe essere un utile salvagente all’industria dell’auto tedesca, ormai avvitata in una crisi senza fine.

LE SOLLECITAZIONI

Anche le sollecitazioni, nel rispetto della sua autonomia, alla Banca Centrale Europa per un taglio più rapido e incisivo dei tassi di interesse andrebbero a vantaggio dell’economia tedesca. Le “colombe”, come ha detto il Commissario per l’Economia Paolo Gentiloni, hanno mostrato una maggiore «consapevolezza». Una consapevolezza che oggi invece, sembra essere carente nel Nord Europa. Da lungo tempo tutte le organizzazioni internazionali spingono affinché la Germania investa di più e permetta anche agli altri di farlo. Mario Draghi nel suo rapporto ha spiegato che il Vecchio Continente è a un bivio. Per non soccombere occorrerebbero 800 miliardi di investimenti l’anno. Berlino appare incatenata ai suoi dogmi come il freno sul debito. Quello stesso freno che secondo l’ex cancelliera Angela Merkel, come ha scritto nella sua autobiografia, andrebbe rivisto. Lo aveva scolpito lei nella Costituzione tedesca. È comunque un segnale di cambiamento. C’è da sperare non sia l’unico. Altrimenti si rischia di finire come in quella vignetta resa famosa dall’ex direttore del Fondo monetario Olivier Blanchard, in cui in un paesaggio in rovina un tizio si rivolge all’altro e dice: «Sì, però ora il debito è sotto il 60 per cento». E qualcuno nelle sue memorie potrebbe scrivere ai posteri, che l’unica volta che il Patto ha davvero funzionato è quando è stato sospeso.

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