Alessio Vassallo racconta il suo viaggio. Un viaggio interminabile come quel treno che dalla sua Palermo lo ha portato a Roma. Un viaggio infinito che non è ancora finito. Dal cult Il giovane Montalbano al film Indagine di un amore, in sala dal 18 luglio ne ha fatto di strada. Una strada che ha voluto fortemente, quasi per riscatto racconta. Ma «per vedere davvero quanta strada ho fatto, mi basta guardare negli occhi i miei genitori. Perché loro c’erano, fin dall’inizio. Loro sanno». Genitori che «hanno trasformato casa in un museo: sembro il figlio che non c’è più! Hanno conservato ogni ritaglio di giornale, premio, foto…», racconta a Specchio.
Come ha iniziato Alessio Vassallo? «Ero un liceale chiuso in me stesso, introverso, bullizzato, che faceva fatica a esprimersi.
Poi, a 17 anni, fui operato di appendicite e in ospedale conobbi un insegnante di teatro: mi invitò a fare una lezione nella sua scuola. Fu una folgorazione: mi si aprì un mondo in cui riuscivo a esprimermi. Su quel palco prendevo vita. All’inizio fui mosso dalla volontà di riscatto e, forse, anche da un pizzico di vigliaccheria: per paura di affrontare la mia vita, mi nascondevo in quelle dei miei personaggi». Poi «con gli anni ho smesso di fuggire e, parafrasando il mio ultimo film, recitare è diventato un’indagine su me stesso».
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Per l’attore originario di Palermo, «Montalbano è un Batman che non ce l’ha fatta». Il suo obiettivo, racconta ancora a Specchio, è «tramandare a figli, nipoti e pronipoti ogni singolo libro di Camilleri, non foss’altro per il modo autentico con cui racconta la Sicilia». E non a caso il ruolo che l’ha consacrata è stato «senza dubbio Mimì in Il giovane Montalbano. Anche se qui c’è lozampinod el karma: insomma, dai, io che sfondo come un femminaro per eccellenza…».
Si fa una risata Alessio perché «da ragazzo ero sfigatissimo, impacciato, con un improbabile caschetto alla Beatles che certo non aiutava. Ascoltavo Battisti e Celentano struggendomi per amore».
L’anno scorso Alessio ha rivelato di aver sofferto di ludopatia. Una malattia che ha curato: «Credo che la miccia sia stata tutta la rabbia che covavo: i trascorsi al liceo, le delusioni sul lavoro… Soffrivo ma non riuscivo a esprimere questo mio malessere. Così mi calmavo con il gioco. Mi sembrava di stare meglio ma poi le partite non bastavano mai… Ho deciso di smettere quando i miei genitori hanno avuto problemi economici. Loro faticavano ad arrivare a fine mese, mentre io buttavo via un sacco di soldi ogni sera. Mi sono vergognato e ho capito che dovevo chiedere aiuto». A salvarlo è stata l’analisi: «È stata fondamentale per smettere di giocare. Però la fascinazione resta. Se passo davanti a un Casinò, mi prudono le mani».
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